C’è una parola ne I mondi di
Guido Mazzoni (Roma: Donzelli 2010, pp. 66) che non riesce a passare
inosservata; si tratta di «monadi». Non solo per l’implicito
richiamo a Leibniz, il sostenitore del «migliore dei mondi
possibili», ma perché monadi, usata al plurale, sembra
un’estensione del titolo, una sua correzione di senso. «Sostanza
semplice che entra nei composti», secondo la definizione dello
stesso Leibniz, la monade è la condizione del molteplice che si
rivela attraverso la singolarità degli elementi; erede dell’atomo
democriteo, essa appare sin dal primo componimento de I mondi
e proprio con l’atomo si lega: «Ricordo sempre più spesso gli
atomi compiuti / la vita presso di sé / così perfetta nelle monadi»
(Questo sogno, p. 13). È dunque la dimensione del ricordo
quella che caratterizza I mondi; ricordo preso nel suo numero
singolare, il cui monadico nitore riconduce lo sguardo indietro nel
tempo; a brillare è allora la questione di una sua purezza
possibile, perché I mondi sono anche questo: i «puri»
momenti di una vita che appare spesso ingiusta nel suo svolgimento,
così come lo è ogni discorso sul passato.
Sin dalle citazioni in esergo, Mazzoni
sa che ricordare richiede attenzione: da una parte, bisogna, secondo
la prospettiva di Kafka, «vedersi come una cosa estranea,
dimenticare quello che si vede, mantenere lo sguardo», poiché il
cuore, quando è «messo a nudo», subisce sempre contaminazioni
continue. Dall’altra, è necessario tenere a mente il fatto che
«vivere e essere ingiusti sono una cosa sola». Specie questo
secondo memento nietzscheano, tratto dal saggio Sull’utilità
e il danno della storia per la vita, è però soggetto a una
correzione: laddove il filosofo tedesco afferma la necessità di far
violenza al passato, traendolo «innanzi a un tribunale,
interrogandolo minuziosamente e alla fine condannandolo», poiché
«ci vuole molta forza per poter vivere e poter dimenticare»,
Mazzoni sostituisce il senso critico per mondare il passato. È pur
sempre un «processo» quello che avviene, sebbene indotto e non
dogmatico, come nel caso di K. Mazzoni «procede» compiendo
stazioni, che sono non a caso anche stagioni della vita; a volte
assumono la forma di tappe e passaggi, estensioni (Prato
Est, Parcheggio, Luxembourg, Rogoredo, AZ 626, Rettilineo
Dearborn Bridge), di spazi ben oltre il dominio della dimensione
(Questo sogno, Il cielo, La forma del ricordo, Territori,
Superficie, Gli esseri), di tempi interni ed esterni (Quando
si smette di cercare, Gli anni, Bambino, L’istante che è appena
trascorso, Generazioni).
Di questo percorso è specialmente il
trauma a fornire la forma più compiuta del descensus ad inferos:
«E ripensare all’odore di asfalto, / all’azzurro tra i colori,
essendo luglio, avendo / io la schiena in terra e gli occhi verso
l’alto / perché ora mi vedo. Metteranno / delle sonde dentro di
me, un catetere quando mi sveglio» (La scomparsa del respiro dopo
la caduta, p. 22). L’esperienza concreta è quella di un
incidente stradale; il conivolgimento del corpo e della prima persona
permette un affondo ancor più concreto nel tempo, in cose non ancora
mondate, non ancora ricordotte a un’idea di purezza, nel migliore
dei mondi che si possa sperare di avverare in un vita tutt’altra
che giusta, in esperienze essenziali ma che vanno «secondo le
statistiche», che sono, nel rapporto tra io e altro, il loro
contrario: «nessuna esperienza ci unisce, noi stessi siamo questa
dispersione (Esperienza, pp. 22-23)».
Necessario è allora trovare
fisicamente il «momento». È nella prosa che porta il titolo della
raccolta che si coglie in modo decisivo come il percorso del soggetto
renda «mondo» la propria dimensione individuale: l’appartamento
in cui si trova, vissuto come Terra, dove avviene la sua rivoluzione:
«Era un istante di assoluto straniamento e io cercavo di
prolungarlo, perché ciò che accadeva, ciò che pensavo, quella
specie di navigazione in un’estranietà che non diventava parte
della mia vita, fra oggetti presi in affitto che non portavano alcun
segno di me, prendesse una patina nuova – e per un attimo, nello
stupore di chi riconosce ciò che ha sempre saputo, ogni cosa […]
diventasse nitida e leggibile» (I mondi, p. 45). Si tratta,
appunto, del «momento», sia fisico sia temporale, ma che resta fine
a se stesso: «Ma capivo anche la profonda irrelatà di quella
comprensione momentanea, la gratuità di quell’attimo di
straniamento, così fragile in rapporto alle forze primarie, banali
[…]. Chiuso nel proprio territorio, ogni organismo appaga la forza
che lo fa essere e modifica, per quanto può, questo piccolo intero
dove ogni azione ha un significato solo locale e solo simbolico, e
dove tutto tende al proprio equilibrio senza alcun disegno, senza
alcuna giustificazione. Esiste solo questo» (I mondi, p. 46).
È l’azione cieca e costante delle
cose, la casualità meccanicistica entro cui la biologia umana resta
oggetto e non soggetto, a segnare il turning point
gnoseologico, marcatamente rensiano, dell’autore. Senza concedere
più nulla alla prospettiva leibniziana presupposta inizialmente,
Mazzoni la scardina anzi dall’interno, rendendo materia le
monadi-mondi, facendole tendere al minimo stato di energia e al
massimo stato di caos. A questa constatazione decisiva sul piano di
una comprensione da intendere come arresa di fronte a
un’acquisizione, segue il percorso cominciato in precedenza. Non è
che il ricordo abbia subito per questo una nuova prospettiva: «vedo
diversamente / le monadi» (AZ 626, p. 56) è allora vedere in
modo «separato», in senso pressoché montaliano. E seppure «[…]
non c’è un senso ma un infinito adattamento» (Dearborn Bridge,
p. 58), la forza di questa poesia sta proprio nel non arrendersi a
un’illusione, ai modi in cui si compie la vita, in cui essa si
rigenera in mezzo alle cose, come le cose stesse: «Guardo il
neonato, fra le bottiglie e i bicchieri, cominciare a esistere»
(Generazioni, p. 62).
La rivelazione, ciò che apre e che
chiude, è la certezza che almeno l’ingiustizia di questa vita non
sia stata compiuta volontariamente, che a nessuno sia imputabile come
reato, che non ci renda colpevoli; la rivelazione riguarda il mondo
nella misura in cui, se non è certo il migliore per definizione, lo
sia per una questione di forze ed equilibri necessari. Così ogni
giorno può essere puro, o come dice Mazzoni, Pure morning,
il testo conclusivo della racconta, che richiama un brano dei Placebo
(e che forse al nome del gruppo si riaggancia per il riconosciuto
effetto di cura artificiale attribuito a questo pesudofarmaco). I
mondi, dunque, i puri, nella loro pur incontrollabile contaminazione;
«Day’s dawning / skins crawling / pure morning». È qui che il
dolore e la purezza coincidono, che l’indifferenza rende identici
tutti, la solitudine, vicini: «A friend in need’s a friend
indeed».
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