domenica 31 marzo 2013

Frankie Sanzone. Sacro. Ma questa non è la Sicilia.

Francesco Sanzone, Frankie mi ha inviato una e-mail con il suo nuovo lavoro. HO deciso di pubblicare l'opera ed il testo della mail esattamente così come mi è arrivata. Perchè è bella spontanea, vera. E meglio di lui nessuno avrebbe saputo spiegare così bene il suo lavoro. Chissà che non mi arrivino altri suoi scatti che mi raccontino, altre storie.

Ciao Valeria, questo lavoro si basa come tecnica su fotografia e grafica.
Il lavoro in questione si chiama "Sacro". L'idea nasce dalla ricerca di alcuni scatti realizzati nel mercato della vucciria e del capo. Quei vicoli mezzi distrutti ma pieni di odori e gente che ti guarda perchè non sei di li, allora scatti quella foto per non dare sospetto, scatti un altra foto ad una santina al muro e da li parte il lavoro...La santina in questione viene racchiusa in un cerchio (l'occhio di Dio) come se protegge quel piccolo monumento importante per quella gente del rione.
In alto un uomo con la coppola, la sicilia. in basso una statua che non ricordo dove avevo scattato la foto, ma l'ho inserita pechè dalle gambe scivola un serpente che rappresenta il peccato..
tutto questo lavoro è la sicilia, quella sicilia da dove non vorrei mai andarmene, dove è piena di fede, speranza, quella Sicilia creativa, ma nello stesso tempo peccaminosa, dove vogliamo assomigliare ad altri popoli tutti all'avanguardia, tutti frenetici, tutti salutisti, freddi come la neve.
Ma questa non è la sicilia!

Two. Bianchi, Calzolari, Kounellis, Uncini, Zorio.

TWO



La collettiva Two, due opere di ogni artista, una serie di dittici sui generis, che negli spazi della galleria dialogano in un serrato rapporto di analogie e riferimenti. Geometrie centripete, che si irradiano dal centro al perimetro, sono le caratteristiche delle opere di Domenico Bianchi. Forze da cui nascono energie che a loro volta generano il cerchio, creatore di moto continuo, che si staglia al centro di intarsi in cera; modellati mediante morbidi incastri.
La materia, per Giuseppe Uncini assume il requisito di autonomia semantica; le sue opere si presentano come struttura pura, con una propria autonomia, ma allo stesso tempo si aprono al mondo esterno e lo spazio vive una reinvenzione perpetua.
Calzolari, Kounellis, Zorio: appartenenti per un breve periodo all'Arte Povera, che a suo tempo furono definiti iconoclasti.
Le opere di Calzolari, Sale Nero e Omaggio a Fontana, celano un mondo di pulsazioni sotterranee nelle quali la pittura ha un ruolo significativo. Le superfici monocrome o metalliche evocano scenari malinconici, apparizioni silenziose, dialoghi ininterrotti tra le materie.
Due opere della recente stagione creativa di Kounellis, due lastre di ferro e piombo dove si combinano elementi naturali come i capelli ed oggetti di uso quotidiano come un cappotto ed una brandina di un letto. La fascinazione per Zorio verso l'alchimia, la fisica, la chimica e verso tutti i cambiamenti di stato, le tensioni ed i contrasti, le aggregazioni, le trasformazioni delle materie che aprono possibilità sempre nuove sono le caratteristiche del suo lavoro.
Sono i materiali l'origine espressiva delle opere di questi artisti, la loro manipolazione, gli accostamenti raffinati o azzardati. In una serie di episodi linguistici differenti, la mostra focalizza i rapporti che legano l'arte astratta e materica di Domenico Bianchi e Giuseppe Uncini, a quella dei poveristi, Pierpaolo Calzolari, Jannis Kounellis, Gilberto Zorio. 


venerdì 29 marzo 2013

Nell'occhio del Ciclope di Giacomo Lucarini.


DUNE, ovvero: SE L’AMBIZIONE E’ PIU’ GRANDE DELLA GALASSIA




Nel post precedente abbiamo esplorato la carriera nel cinema di Alejandro Jodorowsky, lo psicomago surrealista pop, senza affrontare una storia che di certo merita un capitolo a parte: l’ambizioso, e come vedremo folle, adattamento del leggendario romanzo Dune di Frank Herbert.
A metà degli anni ’70, dopo aver trionfato a livello internazionale e negli ambienti che contano con La Montagna Sacra, Jodorowsky è un artista pronto al colpo grosso anche nel mainstream, il giro grosso.
Naturalmente lo fa a modo suo… e la storia si intreccia con la leggenda. In ogni intervista rilasciata nel corso degli anni, ‘Jodo’ racconta episodi in modo leggermente differente o contraddice quelli che furono i suoi collaboratori. Ma la sua rimane di certo la versione più affascinante che esista (e certamente veritiera, seppure deformata dalla dilagante potenza affabulatoria).


All’epoca il primo dei romanzi di Dune era uscito da un decennio ed era già un cult osannato a livello mondiale: Frank Herbert, il suo autore, aveva creato un’opera stratificata, complessa, affascinante e scientificamente rigorosa pur trattando di pianeti lontani ed ecosistemi alieni. Jodorowsky non ne aveva letto neppure una riga ma, forse condizionato da discorsi avuti con alcuni artisti, un bel mattino si sveglia con una ispirazione divina, realizzare il film di Dune. Come un drogato, aspetta che apra la libreria più vicina, compra l’opera e si chiude in casa, finendola prima della mezzanotte. La sfida è pazzesca: quindi è sicuro di farcela. Prende subito una decisione molto significativa, ovvero non fare il ‘salto’ hollywoodiano ma tenersi alla larga dallo studio-system made in USA. Quegli americani che non stavano ancora meditando una simile trasposizione, ma che giocheranno ancora un ruolo, purtroppo non positivo, nella nostra vicenda. La fantascienza ad alto budget, dopo 2001 di Kubrick, si era arenata e Guerre Stellari (che tra le decine di fonti d’ispirazione annovera ovviamente Dune) sarebbe arrivato nel 1977.


Il regista telefona dunque a Michel Seydoux, 26 anni, parigino, la persona che gli aveva distribuito La Montagna in Francia con grande successo. In pochi minuti i due si accordano: comprare i diritti del romanzo, mettere in piedi una produzione internazionale da oltre dieci milioni di dollari (costosissima per gli standard non-statunitensi), e trasferirsi nel giro di 48 ore a Los Angeles. La prima fu la cosa più semplice, dato che nessuno studio aveva in cantiere una simile impresa, giudicando il libro infilmabile e magmatico. Mentre Seydoux cerca i finanziamenti, Jodorowsky va a caccia di un artista visionario almeno quanto lui per i disegni preparatori: è ancora la Francia a venirgli in soccorso, con uno degli illustratori e fumettisti più amati della storia. Jean Giraud, in arte Moebius, contribuisce alla stesura della sceneggiatura realizzando in tempo reale le visioni del vorace regista cileno. Per Jodo è amore a prima vista, e l’inizio di un sodalizio che si è poi sviluppato per una vita intera sulla carta (su Metal Hurlant e con L’Incal). Alla fine, saranno oltre tremila i disegni dell’artista della matita, un patrimonio di valore inestimabile composto durante le febbrili sedute tra parole e immagini. Manca però un tocco unico per le astronavi, una visione inedita: ecco allora i due avvalersi di Christopher “Chris” Foss, da anni illustratore delle copertine dei romanzi di fantascienza inglesi. Il suo lavoro colpisce i due, che lo convincono ad unirsi alla crociata spaziale. Gli studi di Foss per i mezzi dell’universo di Dune sono incedibili, gelidi macchinari che sembrano dotati di vita, capaci di mimetizzarsi e di ‘respirare’ l’atmosfera dei pianeti. 


La triade di artisti visuali si completa con un altro incontro, è il caso di dirlo, del destino: Hans Ruedi Giger, un pittore svizzero che Jodorowsky apprezzava per aver visto in un catalogo a casa di Salavador Dalì. Inutile ricordare l’importanza e l’influenza di un artista simbolico-surrealista capace di creare orrori tanto metafisici quanto terribilmente carnali: lo svizzero realizza per Dune alcuni artwork per l’oscuro e perverso pianeta Harkonnen (e dei leggendari ‘vermoni’) e per diverse scenografie del film.
Francia, Inghilterra, Svizzera: ‘Jodo’ conferma il respiro europeo della produzione, e i contatti con l’America rimangono, come sempre, abbastanza difficili. Come altro descrivere il fallimento della trattativa con il genio degli effetti speciali Douglas Trumbull, creatore del comparto visivo di 2001 Odissea nello spazio, Star Trek eBlade Runner? Pare che i due si trovassero caratterialmente incompatibili; in particolare il cileno lo accusa di avere ‘arie da padrone’, e di padroni ne serve uno soltanto… per cui, girovagando per Los Angeles, Jodo va a caccia di giovani talenti in piccoli festival di fantascienza amatoriale.
Nuovo incontro del destino: il regista vede un piccolo film molto ben realizzato sul versante degli effetti. Si tratta di Dark Star, girato da John Carpenter e curato tecnicamente da Dan O’Bannon, autore del soggetto e del cortometraggio da cui è tratto. Dan piace molto a Jodorowsky, ma palesa subito la sua personalità contorta e selvaggia che gli renderà la vita difficile anche a Hollywood, nonostante il talento: viene comunque imbarcato su Dune come responsabile degli effetti speciali.


La parte visuale èben coperta: adesso tocca ad un altro aspetto fondamentale per l’autore, le musiche. Scartata l’idea di una ‘semplice’ orchestra per la colonna sonora, Jodo si butta sui gruppi che gli piacciono. Contatta la Virgin, che gli propone i Tangerine DreamMike Olfield e i Gong… ma il cileno già vola con la fantasia e va oltre, facendo carte false per incontrare i Pink Floyd.
Altro burrascoso confronto artistico; i componenti del gruppo, a ridosso dell’uscita di The Dark Side of the Moon, non erano esattamente come il regista se li aspettava. Appena trentenni e all’apice del successo, si dimostrarono star flemmatiche che mandarono su tutte le furie l’autore di El Topo (che parla della sua “attesa interminabile, mentre davanti a me mangiavano bellamente patate fritte”). Rapido chiarimento, esposizione del progetto, altri due contatti a Parigi e via: Jodorowsky riesce a coinvolgere le maggiori star del rock psichedelico nella sua ‘crociata’ nell’universo di Dune. Sembra veramente fatta, con un delle premesse da instant-cult, ma la strada è ancora lunga… serve il cast: tra gli attori desiderati e quelli interessati a partecipare, i nomi diventano quelli di Orson Welles, Charlotte Rampling, David Carradine, Mick Jagger. Jodo però, naturalmente, vuole andare oltre: per lui è necessario avere a tutti i costi, nella piccola parte del folle Imperatore della Galassia, nientemeno che Salvador Dalì.



Immobile, seduto su un trono-water formato da due delfini, accanto ad un suo simulacro-doppio artificiale, l’Imperatore sarebbe stato un ruolo-evento storico. Peccato che i sette giorni di riprese previsti sarebbero costati 700 mila dollari: Dalì pretendeva infatti un cachet di centomila dollari all’ora, che avrebbe fatto di lui l’attore più costoso della storia del cinema. Il cilento tenta prima di mediare sulla cifra, poi di ridurre le pagine del copione per il personaggio, infine accetta la cifra pazzesca ma riduce l’impegno a solo un’ora di riprese. L’altro va su tutte le furie, poi accetta anche di farsi riprodurre in formato di pupazzo-robot, a patto che alla fine del film questo venga donato al suo museo. L’accordo è firmato su una pagina del libro dei tarocchi di Jodo (relativa all’Appeso), che il regista aveva strappato durante un eccesso di frustrazione pensando proprio a Dalì.
Questa fu l’ultima delle deliranti storie legate al Dune dello psicomago surrealista: nel frattempo era passato troppo tempo e lo spreco di denaro per la pre-produzione era stato enorme, più di due milioni di dollari. I finanziatori francesi gettano la spugna nonostante moltissimo materiale fosse pronto, spaventati dalla verve faraonica e senza limite di Jodorowsky. Tutto evapora in una bolla di sapone, complice anche – a quanto pare – l’ingerenza di potenze hollywoodiane, che avevano vissuto come una sfida aperta l’europeismo dell’adattamento di Dune e che cercarono di fagocitare il progetto.


Jodo si prese un periodo lontano dal cinema, continuando a dedicarsi ai suoi molteplici interessi in campo artistico, letterario e magico: della sua sceneggiatura di Dune, però, non rimane traccia. Il lavoro realizzato da MoebiusGiger e Foss sarà in parte riutilizzato per il Dune che verrà e in parte per un film che segnerà l’immaginario collettivo: Alien, di Ridley Scott, in cui a fare la parte del leone sarà lo xenomorfo ideato dallo svizzero con il nostro Carlo Rambaldi. Una pellicola che porta la firma nel soggetto e nella sceneggiatura dello scatenato Dan O’Bannon.
Dune, come detto, risorgerà e passerà di mano in mano fino alla partenza definitiva della produzione, da zero, ad opera di Dino De Laurentiis per la Universal, con la sceneggiatura e la regia del giovane David Lynch (altro personaggio arrivato dal mondo dell’arte e della pittura). Anche stavolta però sarà un viaggio lungo e travagliato, per un film destinato, pur con tutti i suoi difetti, a diventare un meritato cult della fantascienza mondo.


lunedì 25 marzo 2013

Librazioni, di Diego Bertelli

Mabel dice si.

Luca Ricci 







C’è una scena rituale in Mabel dice sì, l’ultimo racconto lungo di Luca Ricci (Einaudi 2012): si tratta di un’esperienza cannibalica, in cui l’eponima protagonista della storia viene servita ai suoi innumerevoli amanti in piccole porzioni e ancora viva. A raccontarla è l’aspirante pianista/portiere di notte dell’albergo dove lavora anche Mabel: è solo un sogno, per quanto vivido, dove è andato a depositarsi un bel po’ di residuo diurno accumulato accanto a questa ragazza in apparenza non troppo attraente e vagamente androgina, ma circondata di uomini a cui dice sempre sì. Mabel non avrebbe nessun problema a dir di sì anche al nostro romantico e inerme voyeur, ma egli si trattiene, nella vita e nel sogno; è l’unico che non si nutre del corpo di lei ma guarda soltanto, mentre perfino Dorina, la donna che lavora nella cucine dell’albergo, si avvicina curiosa e famelica.
Mabel, che è corpo, ma prima ancora qualcos’altro: un nome, strano, per altro. Con questo attributo il personaggio maschile tenta un primo, goffo dialogo con la ragazza. Intrappolato con lei dietro il banco della reception, egli spera così di rompere il ghiaccio. «Mi aspettavo che mi spiegasse per filo e per segno perché i suoi genitori gliel’avessero dato. Invece si limitò a una spiegazione tecnica, da dizionario: Mabel era una leggendaria principessa inglese invocata contro i fulmini e serpenti, la parola deriva dal verbo latino amare e significa “amabile”».
Con un’associazione del tutto ingiustificata e un riferimento forse non troppo azzeccato, la scena del cannibalico convivio di Mabel mi ha fatto pensare a una canzone presentata a Sanremo giovani circa dieci anni fa. È un pezzo di un gruppo ormai non più attivo, La Sintesi, intitolato Ho mangiato la mia ragazza. Il ritornello all’inizio fa così; «Ho mangiato la mia ragazza / per la mia voglia di conoscere a fondo la verità…». Insomma, il riferimento è quello che è, ma l’associazione viene da sé: sapore/sapere. Non so in quanti abbiano letto o si ricordino Sotto il sole giaguaro di Italo Calvino, che avrebbe dovuto intitolarsi appunto Sapore sapere. Il senso è lo stesso, sia in termini di significato sia di sensazione che ne deriva.
Anche per il protagonista scoprire la verità su Mabel significa sentirne il sapore, gustarla come si gusta una «tartina»; invece il nostro mancato Glenn Gould non si perita di sussurrarle nell’orecchio se sta bene. E Mabel dice sì, anche in questo caso, come sempre ha detto sì agli uomini. Non resta che continuare a guardare, a chiedersi se i gemiti di Mabel siano dolore o piacere. È certamente interessante che del protagonista maschile di questa storia, a differenza di Mabel, non si sappia neanche come si chiami. Che i nomi siano la conseguenza delle cose qui è chiaro più che mai: in dubbio è infatti l’identità di genere del protagonista, specie di fronte a Mabel e alla sua vita.
Quella della sessualità del protagonista è una traccia sotterranea, che sale a volte in superficie, ma senza inquietarlo veramente; egli non sembra capire quello che Mabel gli dice quando lui prova a toccarla: «Tanto non ti piace»; egli non sembra neanche rendersi conto che preferisce la compagnia di Nicola, uno degli amanti di Mabel, o del paracadutista che vuole aprire una scuola di bungee jumping vicino all’albergo. La questione è davvero quella del salto. Si tratta di lanciarsi nel vuoto, e il protagonista ammette la sua paura: per quanto la corda sia sicura, l’esperienza lineare, verticale del vuoto non fa per lui. Egli è senza dubbio un carattere circolare e così è la narrazione: il racconto ha infatti una sorta di cornice speculare all’inizio e alla fine che sembra proteggerne la formazione (anche laddove si tratta di una sviluppo mancato): «oggi». Incastonato in mezzo c’è il passato, ancora presente (come se fosse): «ieri». È qui che Mabel (in quanto nome e in quanto persona) apre la narrazione, caratterizzandola fino al raggiungimento dell’equilibrio: a questo punto la storia potrebbe anche finire, ossia portrebbe andare avanti all’infinito: nuovi amori, nuovi amanti, ennesimi fraintendimenti ed ennesime evoluzioni che seguono il corso dell’alta e della bassa stagione dell’albergo, dove i destini di tutti finiscono l’uno addosso all’altro come su una pista di autoscontro: incaponiti, un po’ stolidi, i personaggi di Ricci rimbalzano e vanno avanti fino a frontale successivo. Invece qualcosa accade: Mabel scompare, di lei non si sa più nulla. Addirittura c’è il sospetto di una gravidanza inattesa.
Adesso è arrivato il momento: il voyeur deve mettersi all’opera. Certamente egli non è Ulisse, ma un po’ Telemaco è, per quanto la sua ricerca sia quella di una figura ultrafamigliare, sintesi del mascolino e del femminino. Soltanto qui comincia la Bildung, il cui senso non sta tanto nel ritrovare veramente lei; è nel momento della ricerca vana che il protagonista cresce; viene riconosciuto dagli altri, ottiene una promozione, acquisisce una sua embrionale identità. Conseguenza di questa cosa: egli non odia più il suo passato, riconsegna il pianoforte senza drammi, si sente a suo agio con l’amico paracadutista e lo invita a cena per festeggiare. È così che egli ritrova veramente Mabel, ma il ritrovamento è appunto qualcosa di più di un incontro, della risoluzione dei fatti: è invece lo splendore dell’enigma. Mabel non ricomparirà, risaltando infine più che mai; a ridarne il segno, la traccia ormai sepolta, sarà invece un giovane ragazzo di appena vent’anni, i cui occhi sembrano ridere come ridevano quelli di lei.

mercoledì 20 marzo 2013

Rendez Vous Tomorrow.



Fondazione Artèvision e Politecnico di Torino presentano

Max Papeschi’s Freak Show


Dal 3 al 15 aprile 2013, Sala delle Colonne, Castello del Valentino, Torino.
A cura di Telemaco Rendine e Caterina Musazzi.
In collaborazione con il Politecnico di Torino.
Inaugurazione: 3 Aprile 2013 ore 19:00

“Il circo è una specie di specchio in cui la cultura si riflette,
condensata e allo stesso tempo trascesa."
Paul Boussiac

Mercoledì 3 aprile 2013, alle ore 19, la Sala delle Colonne del Castello del Valentino di Torino apre le porte al “Max Papeschi’s Freak Show” una mostra antologica dell’artista, che svela la sua produzione degli ultimi quattro anni.

Forte di una carriera come regista teatrale e cinematografico, Papeschi mette in scena un vero e proprio "circo": un provocatorio spettacolo fatto di personaggi irriverenti, alterazioni simboliche e maschere mediatiche. Come artista figurativo il suo approccio con l’Art-World è stato d’immediato successo sia di pubblico che di critica, nazionale e internazionale. Le opere mostrano, attraverso uno stile politically scorrect, diretto e graffiante, una società globalizzata e consumista rivelandone le contraddizioni in maniera ironicamente realistica e scardinando la cultura di massa e le sue icone.

Fino al 15 aprile, in una delle più belle residenze d'epoca di Torino e d'Europa, simbolo di storia e tradizione, si ripercorre l'arte eclettica dell'artista milanese attraverso tutti i suoi momenti tematici e formali più significativi.

"Si alza il sipario su una produzione quadriennale, a partire dai primissimi lavori shock come Topolino Nazista e Ronald McDonald Macellaio passando per la serie di fotografie storiche in bianco e nero, rivisitate dall’artista, e quella dei Life, dove le immagini dei fatti che hanno cambiato il mondo nel secolo passato si susseguono incorniciate nelle copertine dell’autorevole rivista, per arrivare agli ultimissimi lavori, fotocollage in cui l’artista combina il corpo di figure di spicco che governano la Terra con volti di neonati bizzosi. Una provocazione che tende a puntare il dito contro l’ovvia incapacità dei leader mondiali di affrontare le questioni più complesse e vitali del globo, che ogni giorno, tristemente, ci dimostrano.
Con la sua prima mostra in terra polacca e l’enorme manifesto esposto nel centro di Poznan che ostentava una Minnie nuda con alle spalle una svastica, e che rovesciava in modo carnevalesco lo spettacolo dell’orrore diventato prodotto da pay per view, la stampa mondiale diede il via a un vero e proprio dibattito senza vincitori, tra schieramenti contrari e sostenitori accaniti. Ma soprattutto, in quel 2010 Papeschi dissotterrò nelle coscienze un passato indegno di questo nome, poiché troppo vicino e ardente, ed evocò una storia che il boom economico seguente cercò di coprire con l’abbondanza, il consumo, gli happy ending. Il packaging seducente venne piazzato al posto della morale, spazzando via la riflessione critica dalla mente della grande massa, ammaliata da pubblicità, prodotti nuovi e televisione, che soffocarono le domande e la memoria attraverso l’acquisto bulimico. La cultura ha cominciato in quel periodo la sua trasformazione in brand, la dittatura del prodotto ha ridotto il genere umano “senza la voce, oltre che senza gli occhi e senza i gesti”, cioè un popolo morto.
Il colorato circo di Papeschi è un “momento dell’assurdo”, possiede un linguaggio proprio, che sebbene si serva degli elementi della cultura contestuale, non manca di trasformarne il significato, di utilizzarli in modo nuovo, si impone come un sistema di comunicazione e significazione autonomo, utilizzando il suo palco per mettere in scena la realtà attuale: le maschere articolate dall’artista sono l’innaturale specchio della nostra storia, filtrata dalla dittatura delle immagini". (Clarissa Tempestini)

Max Papeschi. Pop al fiele.


Ho conosciuto Max Papeschi quest’estate a Pietrasanta durante la sua personale “The Silence of the Lambs” presso la galleria Gestalt, e sono rimasta colpita dall’ironia al fiele delle sue opere realizzate con la tecnica dell’elaborazione digitale, che analizzano e mostrano spudoratamente i vizi, le manie e le paure della nostra società. Ingannata anche io per un attimo  dall’apparente leggerezza di superficie, mi sono ben presto ricreduta, poiché dietro la patina dell’irriverenza, si nasconde una riflessione più profonda che ci permette di soffermarci su tematiche come la guerra, il consumismo, la religione. I suoi protagonisti sono le icone dei nostri tempi, Mickey Mouse, Ronald McDonald, Hello Kitty addobbati con i loghi e le marche che caratterizzano la nostra società di massa. Ma non sono più le figure rassicuranti che siamo abituati a vedere, si sono trasformati, sfigurati in uno stravolgimento semantico. 
Max Papeschi, prima che artista, ha un passato da regista teatrale e televisivo, sa quindi dosare molto bene i linguaggi dell’arte e della pubblicità, dove anche il titolo ha un ruolo importante per l’interpretazione dell’opera. Esasperando ed enfatizzando gli eccessi e le follie della nostra società, in un continuo gioco di rimandi, Max propone una sua personale visione insolente e dissacratoria della realtà, dove i buoni non sono mai davvero buoni fino in fondo.


Valeria: Ciao Max, facciamo subito i politicamente scorretti che ne dici? Cos’è che ti fa schifo del mondo dell’arte?
Max: Ciao Valeria, non è facile rispondere, ma a mio parere un grosso problema è la difficoltà di stabilire un valore agli artisti e alle opere in modo oggettivo. Non è come nell’atletica, tanto per fare un esempio, dove se fai i 100 metri in meno di 10 secondi sei un fenomeno e se ce ne metti 20/30 nessuno si sognerebbe di farti correre in una gara prestigiosa.
Nell’arte contemporanea invece ci sono tantissimi artisti che non riuscirebbero neanche a correre per 100 metri di fila, eppure espongono in mostre importanti. Si arriva talvolta a situazioni surreali come  Il padiglione Italia di Sgarbi del 2011 che sembrava uno scherzo, vi immaginate se alle olimpiadi fossero stati convocati quasi solo ragazzini di 9-10 anni e giocatori di bowling in pensione. Eppure nell’arte cose come questa succedono continuamente.


Valeria: Sei abbastanza arrabbiato e visionario nei tuoi lavori, mi racconti come nascono?
Max: La mia ispirazione nasce leggendo, viaggiando e cercando di parlare con presone interessanti. Cerco di tenermi aggiornato su quello che accade nel mondo, il lavoro in questo modo mi viene naturale, evito soprattutto di forzarmi a lavorare quando non ho nulla da dire.


Valeria: Com’è andata la mostra quest’estate a Pietrasanta presso la galleria Gestalt? Che ambiente hai trovato a Pietrasanta?
Max: Molto bene grazie, non conoscevo Pietrasanta e non avevo idea che ad Agosto diventasse la capitale italiana dell’arte contemporanea, è stata una piacevolissima sorpresa.


Valeria: Che importanza ha per te la politica?
Max: Qualcuno ha detto: Se non ti interessi di politica, prima o poi la politica si interesserà di te. E’ un’affermazione che condivido pienamente.

Valeria: Dove sta andando la cultura artistica italiana?
Max: Credo che ormai parlare di “cultura artistica nazionale “ sia un po’ superato come concetto, nel senso che ormai gli artisti, ma anche i curatori e i galleristi o sono internazionali o non sono del tutto, e questa tendenza col tempo sarà predominante. Sarebbe più interessante capire dove sta andando la cultura artistica in generale, e non è una risposta facile.


Valeria: Cosa è arte e cosa non è arte.
Max: Questa domanda riprende in un certo senso il discorso che facevo all’inizio della nostra intervista. Il confine è labile, e questo crea talvolta situazioni al limite del ridicolo, mi viene in mente il film con Alberto Sordi, dove la moglie obesa si addormenta su una sedia e viene scambiata per un’opera d’arte. Diciamoci la verità, è stato esposto di peggio.


Valeria: Hai avuto dei maestri da cui hai tratto ispirazione?
Max: Tenuto conto del mio background nel mondo dello spettacolo, penso di essere stato influenzato solo parzialmente sia dagli artisti del passato che da quelli contemporanei. Traggo molto più volentieri inspirazione dai libri di storia, dai romanzi, dal cinema, dalla musica e anche dalla pubblicità.


Valeria: Giochiamo un attimo, dimmi la verità si fanno più conquiste ed essere artista?
 Max: Ok, diciamo la verità senza girarci intorno: essere artista non mi avrebbe aiutato più di tanto a fare conquiste, avere una certa notorietà invece fa spesso la differenza, ma la stessa cosa penso valga in tutte le altre professioni naturalmente.


Valeria: Mai pensato il trasferirti all’estero?
Max: Ormai credo che a livello professionale per un artista cambi molto poco la città di residenza se si possiede una buona connessione internet e si ha la possibilità di viaggiare spesso.


Valeria: Registi preferiti?
Max: Te ne dico tre, ma potrei farti una lista infinita: Stanley Kubrick, Elio Petri e Lars Von Trier.


Valeria: Qual è o quali sono le opere a cui sei più affezionato?
Max: Quelle che farò da domani in poi.




Valeria: Veniamo alla parte più interessante per un artista: progetti futuri
Max: I primi di Aprile ci sarà la mia prima “antologica” al Castello del Valentino di Torino, curata da Caterina Musazzi e Telemaco Rendine (Fondazione Artèvision), penso che sarà un evento molto interessante, la location è stupenda e l’organizzazione ha richiesto molto tempo e molto impegno, sono sicuro che si vedranno i risultati. Poi sempre a metà Aprile una buona parte della mostra si sposterà in un’altra location bellissima, l’Aurum di Pescara, la mostra sarà patrocinata dal comune di Pescara e sarà a cura di Roberta D’Intinoisante. Immediatamente dopo partirò per la Russia dove parteciperò ad una collettiva curata da Francesco Attolini per la Fondazione Rizzordi di San Pietroburgo. 
Nello stesso periodo dovrei partecipare a qualche fiera tra Monaco, Barcellona, Atene e forse Hong Kong. Passati questi due mesi di fuoco mi piacerebbe poter tornare per qualche tempo in California dove rilassarmi e riprendere la collaborazione a un progetto multimediale iniziata quest’estate in occasione della mai personale a Città del Messico, ma è presto per parlarne.



Max vive e lavora a Milano