sabato 4 maggio 2013

Librazioni, maggio di Diego Bertelli




C’è una parola ne I mondi di Guido Mazzoni (Roma: Donzelli 2010, pp. 66) che non riesce a passare inosservata; si tratta di «monadi». Non solo per l’implicito richiamo a Leibniz, il sostenitore del «migliore dei mondi possibili», ma perché monadi, usata al plurale, sembra un’estensione del titolo, una sua correzione di senso. «Sostanza semplice che entra nei composti», secondo la definizione dello stesso Leibniz, la monade è la condizione del molteplice che si rivela attraverso la singolarità degli elementi; erede dell’atomo democriteo, essa appare sin dal primo componimento de I mondi e proprio con l’atomo si lega: «Ricordo sempre più spesso gli atomi compiuti / la vita presso di sé / così perfetta nelle monadi» (Questo sogno, p. 13). È dunque la dimensione del ricordo quella che caratterizza I mondi; ricordo preso nel suo numero singolare, il cui monadico nitore riconduce lo sguardo indietro nel tempo; a brillare è allora la questione di una sua purezza possibile, perché I mondi sono anche questo: i «puri» momenti di una vita che appare spesso ingiusta nel suo svolgimento, così come lo è ogni discorso sul passato.
Sin dalle citazioni in esergo, Mazzoni sa che ricordare richiede attenzione: da una parte, bisogna, secondo la prospettiva di Kafka, «vedersi come una cosa estranea, dimenticare quello che si vede, mantenere lo sguardo», poiché il cuore, quando è «messo a nudo», subisce sempre contaminazioni continue. Dall’altra, è necessario tenere a mente il fatto che «vivere e essere ingiusti sono una cosa sola». Specie questo secondo memento nietzscheano, tratto dal saggio Sull’utilità e il danno della storia per la vita, è però soggetto a una correzione: laddove il filosofo tedesco afferma la necessità di far violenza al passato, traendolo «innanzi a un tribunale, interrogandolo minuziosamente e alla fine condannandolo», poiché «ci vuole molta forza per poter vivere e poter dimenticare», Mazzoni sostituisce il senso critico per mondare il passato. È pur sempre un «processo» quello che avviene, sebbene indotto e non dogmatico, come nel caso di K. Mazzoni «procede» compiendo stazioni, che sono non a caso anche stagioni della vita; a volte assumono la forma di tappe e passaggi, estensioni (Prato Est, Parcheggio, Luxembourg, Rogoredo, AZ 626, Rettilineo Dearborn Bridge), di spazi ben oltre il dominio della dimensione (Questo sogno, Il cielo, La forma del ricordo, Territori, Superficie, Gli esseri), di tempi interni ed esterni (Quando si smette di cercare, Gli anni, Bambino, L’istante che è appena trascorso, Generazioni).
Di questo percorso è specialmente il trauma a fornire la forma più compiuta del descensus ad inferos: «E ripensare all’odore di asfalto, / all’azzurro tra i colori, essendo luglio, avendo / io la schiena in terra e gli occhi verso l’alto / perché ora mi vedo. Metteranno / delle sonde dentro di me, un catetere quando mi sveglio» (La scomparsa del respiro dopo la caduta, p. 22). L’esperienza concreta è quella di un incidente stradale; il conivolgimento del corpo e della prima persona permette un affondo ancor più concreto nel tempo, in cose non ancora mondate, non ancora ricordotte a un’idea di purezza, nel migliore dei mondi che si possa sperare di avverare in un vita tutt’altra che giusta, in esperienze essenziali ma che vanno «secondo le statistiche», che sono, nel rapporto tra io e altro, il loro contrario: «nessuna esperienza ci unisce, noi stessi siamo questa dispersione (Esperienza, pp. 22-23)».
Necessario è allora trovare fisicamente il «momento». È nella prosa che porta il titolo della raccolta che si coglie in modo decisivo come il percorso del soggetto renda «mondo» la propria dimensione individuale: l’appartamento in cui si trova, vissuto come Terra, dove avviene la sua rivoluzione: «Era un istante di assoluto straniamento e io cercavo di prolungarlo, perché ciò che accadeva, ciò che pensavo, quella specie di navigazione in un’estranietà che non diventava parte della mia vita, fra oggetti presi in affitto che non portavano alcun segno di me, prendesse una patina nuova – e per un attimo, nello stupore di chi riconosce ciò che ha sempre saputo, ogni cosa […] diventasse nitida e leggibile» (I mondi, p. 45). Si tratta, appunto, del «momento», sia fisico sia temporale, ma che resta fine a se stesso: «Ma capivo anche la profonda irrelatà di quella comprensione momentanea, la gratuità di quell’attimo di straniamento, così fragile in rapporto alle forze primarie, banali […]. Chiuso nel proprio territorio, ogni organismo appaga la forza che lo fa essere e modifica, per quanto può, questo piccolo intero dove ogni azione ha un significato solo locale e solo simbolico, e dove tutto tende al proprio equilibrio senza alcun disegno, senza alcuna giustificazione. Esiste solo questo» (I mondi, p. 46).
È l’azione cieca e costante delle cose, la casualità meccanicistica entro cui la biologia umana resta oggetto e non soggetto, a segnare il turning point gnoseologico, marcatamente rensiano, dell’autore. Senza concedere più nulla alla prospettiva leibniziana presupposta inizialmente, Mazzoni la scardina anzi dall’interno, rendendo materia le monadi-mondi, facendole tendere al minimo stato di energia e al massimo stato di caos. A questa constatazione decisiva sul piano di una comprensione da intendere come arresa di fronte a un’acquisizione, segue il percorso cominciato in precedenza. Non è che il ricordo abbia subito per questo una nuova prospettiva: «vedo diversamente / le monadi» (AZ 626, p. 56) è allora vedere in modo «separato», in senso pressoché montaliano. E seppure «[…] non c’è un senso ma un infinito adattamento» (Dearborn Bridge, p. 58), la forza di questa poesia sta proprio nel non arrendersi a un’illusione, ai modi in cui si compie la vita, in cui essa si rigenera in mezzo alle cose, come le cose stesse: «Guardo il neonato, fra le bottiglie e i bicchieri, cominciare a esistere» (Generazioni, p. 62).
La rivelazione, ciò che apre e che chiude, è la certezza che almeno l’ingiustizia di questa vita non sia stata compiuta volontariamente, che a nessuno sia imputabile come reato, che non ci renda colpevoli; la rivelazione riguarda il mondo nella misura in cui, se non è certo il migliore per definizione, lo sia per una questione di forze ed equilibri necessari. Così ogni giorno può essere puro, o come dice Mazzoni, Pure morning, il testo conclusivo della racconta, che richiama un brano dei Placebo (e che forse al nome del gruppo si riaggancia per il riconosciuto effetto di cura artificiale attribuito a questo pesudofarmaco). I mondi, dunque, i puri, nella loro pur incontrollabile contaminazione; «Day’s dawning / skins crawling / pure morning». È qui che il dolore e la purezza coincidono, che l’indifferenza rende identici tutti, la solitudine, vicini: «A friend in need’s a friend indeed».

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