martedì 26 febbraio 2013

In Vinile, Sergio Pardini



Brevi riflessioni nostalgico-malinconiche di un vecchio ascoltatore di “suoni graffiati”
("Il piatto dei fonografi è paragonabile al tornio del vasaio: la massa sonora viene plasmata su di esso e la materia è già data. Ma il vaso sonoro che così nasce resta vuoto. Sarà l'ascoltatore a riempirlo")Theodor Adorno
Piatto, o il più criptico piatto stroboscopico, disco, giradischi o tanto meno fonografo, puntine, o i mitici “mangiadischi, mangiacassette” sembrano parole preistoriche per i giovanissimi di oggi annullate totalmente dalla musica digitale e dal cd. Chi dice più la parola disco? Qualcuno timidamente accenna a "disco in vinile" per riferirsi a quello strano arnese nero e rotondo, che provvedeva  a riprodurre musica fino a un paio di decenni fa, usando quello sconosciuto e bizzarro attrezzo che si chiama appunto giradischi.
Long play (o long-play) ‹lòn plèi› [Locuz. ingl. "lunga esecuzione", usata in it. come s.m.] Disco fonografico a microsolco e con velocità di rotazione di 33 giri a minuto che, per il suo grande formato (30 cm di diametro), consente audizioni relative  lunghe, fino a 40 minuti per facciata, nonché stereofoniche e ad alta fedeltà (v. suono: V 709 b). Con lo stesso signif., è in uso in Italia anche long playing ‹lòn plèiin›. Per l'una e per l'altra locuz., è frequente la sigla LP. (Dizionario delle Scienze Fisiche Treccani 2012)
Nel 1931, la casa discografica Rca-Victor distribuì il primo LP della storia: la Quinta sinfonia di Beethoven.  Ma il 33 giri è stato ufficialmente introdotto nel 1948 negli Stati Uniti dalla casa discografica  Columbia, come evoluzione dei precedenti dischi a 78 giri, dalle simili caratteristiche. Credo che la prima incisione di musica leggera in 33 giri fu la riedizione di una raccolta di successi di Frank Sinatra già usciti in 78 giri. Dal diametro quasi identico al 78 giri ma con tecnica diversa con molti più “solchi” si chiama infatti anche “microsolco”, con copertine curate, a volte vere e proprie opere d’arte.


Inizialmente il microsolco era un 78 giri migliorato, la velocità di riproduzione essendo più lenta permetteva la registrazione di più musica e il materiale utilizzato era di tipo resinoso, il quale permetteva un incisione più raffinata e con migliori proprietà elettroacustiche. Questa fu la genesi di quella evoluzione che portò il microsolco alla qualità necessaria da essere definito “Alta Fedeltà“, inizialmente il microsolco pesava 180 grammi a differenza del precedente 78 giri che ne pesava 360 a parità di dimensioni (30 centimetri), in alcuni casi fu poi portato a pesare fino a 130 grammi.
Parlando strettamente dal punto di vista  musicale, credo che  la improvvisa consapevolezza di un avvenuto salto generazionale per quelli della mia età, oltre alla biologica trasformazione naturale di ognuno, sia stato quando il CD prese il sopravvento sugli LP, o 33 giri,. eh sì, il 33 diventò “vecchio”di fronte al “giovane” CD.. Ma era come perdere un amico di sempre. Queste piccole scatolette trasparenti di plastica, niente hanno a che fare con gli ingombranti ma bellissimi album, anche l’odore, il profumo di carta stampata e di gommalacca (in realtà credo fosse il cloruro di polivinile o PVC) non esiste più, il CD è asettico, inodore, insapore è “alieno”.


Quando si apriva il cellophane di un LP era come scartare un regalo, la sorpresa dell’interno, i disegni,  le foto, i testi delle canzoni e a volte  una breve “spiegazione” del contenuto del disco, con aneddoti, ringraziamenti e altro ancora, leggibili come un libro dato lo spazio che permetteva il formato del 33 giri. Prima di estrarre il disco per poi  poggiarlo sul piatto del giradischi si leggeva la copertina proprio come un libro e si guardava l’interno, poi si ascoltava seguendo i testi e si annusava , come faccio con i libri. Non so se davvero nostalgia senile ma ho l’impressione che il 33 giri si ascoltasse con più attenzione, anche se con alcuni inconvenienti. c’era anche il rischio di non aver calibrato bene il peso del braccio e si poteva rischiare che la puntina saltasse un solco, quindi bisognava essere pronti e riposizionarla dopo averla leggermente appesantita, il CD si “infila” dentro il lettore, scompare, non rischi interruzioni, con un telecomando salti da un brano all’altro o lo velocizzi, o puoi lasciarlo “suonare” e fare anche altro.  Il vinile andava comprato per forza ed era “tuo”, la copia che avevi fra le mani era “unica”, il CD si può “scaricare”, copiare, duplicare diventa anche di “altri”.




Di sicuro la musica ascoltata da un disco era diversa, non posso dire migliore o peggiore, ma diversa, ma non per il sopracitato effetto “nostalgico/senile”, credo che dal 33 giri uscisse  la musica di chi pensava che la musica fosse essenziale nel momento in cui si ascoltava e non, come accade sovente con il CD , puramente un sottofondo.  
Qualcuno si spinge a dire che la resa del supporto analogico dà maggior naturalezza e nonostante la nota distintiva del vinile di introdurre distorsioni, queste siano sono solo convogliate nelle  armoniche di pari livello, le più  piacevoli  all'orecchio umano e dove invece il supporto digitale (sicuramente migliore in soglie di distorsione) sembrino più dissonanti per l'ascoltatore. Una manifestazione simile è affermata anche dagli estimatori degli amplificatori a valvole e viene definito con il termine :tube sound. (letteralmente tubo sonoro).
I solchi del 33 giri potevano anche essere ritoccati fisicamente come per esempio nell’album Sgt Pepper lonely heart club band alla fine di A day in the life  arriva un loop di suoni e voci (frasi e rumori senza significato) inseriti modificando l’ultimo solco di uscita del disco in vinile, l’intenzione dei Beatles era che questo espediente avrebbe consentito di sentire questi suoni ripetuti all'infinito finché qualcuno non avesse tolto la puntina dal disco, invece  sulla riproposta in cd lo stratagemma non è possibile e si può ascoltare solo qualche attimo di questo finale, che poi si dissolve velocemente.


Devo per forza ricordare alcune fra le tante bellissime copertine dei 33 giri: quelle famosissime dei Beatles di Sgt Pepper’s Lonely Heart Club Band (con i suoi ipotizzati messaggi misteriosi) e di Abbey Road (la famosa strada londinese su cui si affacciano i mitizzati studi della Apple e accreditata, proprio grazie a quella foto, come patrimonio nazionale britannico); oppure quelle dei Rolling Stones e dei Velvet Underground e di altri firmate da Andy Warhol, o ancora quelle di Frank Zappa, quelle dei Pink Floyd, West Side Story diretto da Bernstein apribile e come in un libro e all’interno tutto il libretto dell’opera o Montecristo e Hollywood Hollywood di Roberto Vecchioni disegnate da Andrea Pazienza, …e solo per citarne alcune. Guardarle adesso sotto la plastica di un piccolo CD o sul ridotto schermo di un ipod non è che dia proprio lo stesso risultato/emozione.
Si potrebbe affermare che anche il calo di vendite dei dischi è sicuramente in parte imputabile al CD, da quando la musica è diventata digitale non sono solo le case discografiche  a poter “fabbricare” dischi. Con i computer e i masterizzatori sempre più veloci e precisi ognuno è in grado di copiare la musica su cd casalinghi, di produrre compilation, di mischiare i dischi, di ricopiare gli album originali, e queste operazioni sono così poco dispendiose  da farci riflettere e quasi diffidare del prezzo di un cd originale. Certo, nelle copie non ci sono le indicazioni sui contenuti, le copertine sono  rabberciate, ma con masterizzatori e stampanti moderni la qualità non è mai scadente, e la spesa è sempre minima. Delle copertine dei cd in effetti non è che ne senta troppo la mancanza, anche perché è scritto in caratteri minuscoli quasi illeggibili (di solito corpo 8/9) se non per un occhio più che perfetto. Il cd autoprodotto si ascolta per lo più  in macchina ed è quasi sempre senza copertina, a volte buttato là sul sedile accanto al pacchetto di sigarette o accanto ad altre cianfrusaglie, dando così l’idea di essere  solo una cosa, non un raccoglitore “’d’arte musicale”, esagerando direi che i CD “non sono musica”. Ammetto solo, ahimè, che il CD è più comodo, occupa meno spazio e non ha i fruscii del 33, è più difficile che si graffi e altre “amenità”.


Nel 90  un gruppo (temo di sbagliare ma credo fossero The Linear Regressionist ?) realizzarono un anti-cd stampato in sole 50 copie assolutamente silenzioso, come ultimo grido di protesta artistica pro-vinile prima della sua presupposta morte.
Però adesso c’è un sensibile ritorno al 33 giri, con tante proposte nuove o in concomitanza col CD o copie di compact disk già usciti. Quindi “per fortuna” non è mai stato un addio!!
D’altronde il ritorno del vinile ha ragioni articolate che sicuramente sono dettate anche  da una specie di armonia perfetta fra contenuto e contenitore. La sua corporeità, le sue proporzioni  e i valori che si sommano fra la musica e la confezione grafica, gli conferiscono una attrattiva “palpabile” dal quale  l’ utilizzatore è sicuramente affascinato.
 Per concludere però devo anche ammettere mestamente che: Il solo fascino del passato è il fatto che è passato (Oscar Wilde).
P.S.
Alex Steinweiss (1917-2011) è l’inventore delle copertine dei dischi, la sua morte ha privato il mondo dell’editoria musicale di uno dei suoi grafici più interessanti ed originali. Le sue scelte furono stimolanti per tutte le altre case discografiche. Prima dell’intuizione di Steinweiss i dischi venivano venduti avvolti in una carta pesante e impersonale, spesso di colori anonimi, verde scuro o marrone scuro di solito. Bastava una confezione senza pretese perché il disco non era ancora un bene di consumo soggetto a leggi di tecniche di mercato. Nel 1938 Steinweiss fu assunto come grafico pubblicitario dalla Columbia Records ma solo per occuparsi di pubblicità su riviste o giornali, ma propose ai dirigenti della Columbia di completare i dischi con copertine colorate che catturassero l’attenzione del pubblico discografico. Nonostante la poca convinzione dei suoi capi, l’idea si rivelò riuscita e le vendite aumentarono rapidamente, facendo di Steinweiss il primo direttore artistico della storia del disco. Pochi anni più tardi l’introduzione del 33 giri generò un problema imprevisto: la carta fine usata fino a quel momento per avvolgere i dischi rovinava i più delicati microsolchi del vinile. Steinweiss ideò allora la confezione di cartone che oggi conosciamo. La contemporaneità  di questi due accorgimenti dette ai dischi quella dignità che essi non possedevano se considerati solo alla stregua di puri mezzi per trasportare e conservare la musica e inoltre conferiva ad essi almeno due caratteristiche importanti: una visiva, rappresentata da quella seduzione istantanea prima assente in un prodotto pensato unicamente per essere ascoltato e una meramente artistica, che rendeva i dischi invitanti  anche solo da guardare.
La prima copertina di Steinweiss vide la luce proprio nel 1938. Da quel momento in poi egli ideò e supervisionò più di 25.000 copertine di ogni genere, spesso con suoi disegni, relativi a produzioni di artisti più o meno famosi di tutto il ‘900.



domenica 24 febbraio 2013

Rendez vous Tomorrow.


PRETTY HATE SOLO
Simone Fazio
a cura di Maria Letizia Tega

SpazioBlue Via gandino, 3 Bologna.



Si è inaugurata ieri e per vederla c'è tempo fino al 28 marzo.

Domenico Antonio Mancini.



Senza titolo, 2010 cartapesta, Costituzione italiana. 210x120


Valeria: Ciao Domenico Antonio, è un vero piacere intervistarti, anche se non ci conosciamo molto, ci siamo solo visti di sfuggita, a Bologna qualche anno fa in fiera. Non so se ricordi. Ecco una domanda al volo forse un tantino stupida, tanto per rompere il ghiaccio; il caso ha un ruolo nel tuo lavoro?
Domenico Antonio: Secondo Deleuze, filosofo francese, tra i miei ultimi “incidenti”, il caso è produttore di senso, ed io sono alla continua ricerca di senso.

V: Secondo te artisti si nasce o si diventa?
DA: Assolutamente si diventa. Certo di fondo ci dev’essere una propensione ad osservare il mondo e ad immaginare visioni “altre”, ma questa propensione va curata, alimentata e maturata con l’esercizio. In più ci sono aspetti del lavoro dell’artista che non possono essere improvvisati, dal dato tecnico legato alla produzione delle opere all’aspetto della cura dei rapporti e delle relazioni che sono sempre stati fondamentali nel fare arte.

V: Mi racconti, brevemente il tuo percorso artistico?
DA: Accademia di belle Arti a Napoli, corso Quartapittura, avevamo un piccolo depositino di “cose” nel bagno del laboratorio, quando avevamo bisogno di qualcosa andavamo a “cercare nel cesso”, la ricerca del sublime anche nell’infimo, presupposto dell’impianto teorico del corso, trovava così una pratica assolutamente chiara. Poi tanti incontri ed un po’ di fortuna senza la quale non si va da nessuna parte.

V: Sei superstizioso?
DA: dalle mie parti si dice “non è vero, ma ci credo”. In ogni caso ci sono cose legate alle abitudini popolari che  sono solo buoni precetti di vita quotidiana: se non passo sotto le scale è perché non sai mai cosa o chi può crollarti in testa.


V: Com’è stata l’esperienza al Premio Cairo?
DA: Un’esperienza importante, il confronto con i colleghi è sempre stimolante ed osservare le meccaniche di un concorso tra artisti può essere anche molto divertente. Forse di quell’edizione avrei calibrato meglio le presenze, non so quanto avesse senso far concorrere assieme artisti under trenta con quarantenni con all’attivo la Biennale di Venezia.

V. E' noto dire che gli artisti o sono geni oppure matti. Tu hai qualche mania particolare?
DA: Da piccolo i miei genitori mi raccontarono la storia di Sansone, giudice d’Israele, uomo dalla forza indescrivibile
risiedente nei lunghi capelli che non aveva mai tagliato. Catturato dai filistei e sedotto da Dalila le racconta il suo segreto ed i capelli gli vengono tagliati. Ogni volta che sentivo arrivare Cenzino, il mio barbiere, con la sua vespa rossa, mi veniva una profonda angoscia. Oggi non taglio mai i capelli prima di aver chiuso un lavoro. Ma penso anche che i genitori possono fare guai peggiori, dopotutto a me non è andata troppo male.

V: Come sono i tuoi rapporti con la critica d'arte?
DA: Penso che il rapporto con la critica debba essere per qualunque artista assolutamente fondamentale. L’arte ha il compito di impostare questioni che spesso a causa della sua parzialità non può sviluppare del tutto. È in questo momento che si deve aprire al dialogo con altre figure. Io mi ritengo fortunato, avendo incrociato nel tempo persone che mi hanno fatto crescere, con cui ho potuto e posso condividere momenti di intenso scambio intellettuale. Penso innanzitutto all’ambiente della Fondazione Menna di Salerno che da anni è un importante presidio di discussione sull’arte.

V: Quali sono gli artisti che segui con interesse?
DA: Da spettatore dell’arte sono onnivoro anche se ammetto di avere qualche problema con la pittura nel cui modus non riesco proprio a calarmi.

V: Qual è stato il tuo progetto più impegnativo?
DA: Probabilmente il progetto con cui ho chiuso il 2012 a Shanghai. The Novel of Shanghai era, è, la scrittura di un romanzo collettivo sulla città, la richiesta agli abitanti di inviarmi parole che la potessero descrivere. Ovviamente più che di un lavoro di narrazione si tratta di un’operazione di problematizzazione delle differenze culturali tra le nostre culture, partendo dal senso della parola “parola” che nella linguistica cinese quasi non ha senso. Significante e significato infatti coincidono nel grafema che rimanda direttamente alla rappresentazione grafica del concetto che esprime. Ogni ideogramma diventa così, più che l’espressione di un’informazione, il racconto di un’esperienza. Già solo comunicare le mie intenzioni non è stata cosa semplice.

The Novel Of Shanghai 2012



The Novel Of Shangai, Particolare



V: Come giudichi la politica culturale italiana?
DA: Pressoché inesistente. Nessuno si preoccupa che la cultura possa essere un argomento di discussione. Le singole esperienze di eventi o musei che provano a sopravvivere non sono assolutamente inquadrate nel disegno  di una più ampia e generale proposta culturale.

V: Hai mai pensato di andare a lavorare all'estero?
DA: Certo! Ci penso tutti i giorni, ma non parto senza un programma preciso.


V: Ci sono stati artisti o professori negli anni della tua formazione che ti hanno particolarmente segnato?
DA: Innanzitutto Ninì Sgambati, il mio Maestro, professore di pittura dell’Accademia di Napoli, che mi ha diplomato con 110 e lode accusandomi di essere snob ed intellettuale dopo aver provato per anni a “liberarmi”, e Jimmie Durham
che nel breve tempo del corso della Fondazione Ratti di Como mi ha insegnato un nuovo modo di guardare il mondo.

V: Quali sono i tuoi ultimi lavori? Progetti per il 2013?
DA: Ho un paio di progetti che non sono ancora sicuri, meglio non parlarne. Giusto un po’ di sana scaramanzia.




V: Grazie mille, c'è qualcuno che vorresti mandare a quel paese, oltre a me per averti portato via tempo con l'intervista?
DA: Sono in genere una persona molto paziente, e non c’è nessuno che abbia voluto mandare a quel paese che non abbia educatamente già mandato. Solo da automobilista riesco a perdere tutta la mia pazienza ed ingaggiare un continuo scontro col mondo. Ma questo esula dalla questione arte.

V: Ultimissima... la difficoltà più grande di essere un artista?
DA: Riuscire a spiegare al carabiniere che ti ferma con l’auto alle due di notte e ti chiede cosa fai nella vita, che significa che come artista produci “installazioni”. Specie quando lui ti chiede “di cosa?”. 


Domenico Antonio Mancini,classe 1980 vive e lavora a Napoli.

martedì 19 febbraio 2013

Librazioni di Diego Bertelli

Le librazioni sono lievi oscillazioni della luna che rivelano all’osservatore terrestre margini del suo lato oscuro. Stupidamente, nella mia testa, sono anche le azioni che i libri compiono su di noi, rivelandoci sempre qualcosa, se è vero che il verbo rivelare vale tanto svelare quanto velare nuovamente.

Librazione di febbraio:
Vanni Santoni, Tutti i ragni,
Palermo: duepunti edizioni 2012, pp. 62.


L’aracnofobia è definita comunemente come uno stato psichico di paura, repulsione e disgusto per i ragni, di solito ingiustificata e dal carattere irrazionale. Ma c’è qualcosa che va oltre una paura irrazionale; è l’acquisizione stessa di una paura, il temere qualcosa che prima non si temeva, il rendersi conto del suo radicarsi nell’esperienza di tutti i giorni. Allora non è poi così vero che a spaventarci è solo ciò che non si conosce; forse la vera paura nasce proprio da ciò che è stato familiare e dalla sua perdita progressiva. Si tratta in poche parole di quello che Freud ha chiamato «sinistro» o «perturbante», Unheimlich, per essere esatti: famigliare e non-famigliare a un tempo. È esattamente questo quello che succede in Tutti i ragni. Il protagonista del libro di Santoni è inizialmente un bambino di sei anni, e come spesso accade ai bambini di quell’età la conoscenza del mondo coincide spesso con processi sperimentali che coinvolgono insetti e animali: «Siamo così orgogliosi della ragnaia […]. Prendiamo moltissimi ragni e li portiamo su, stiamo in cortile a giocare coi ragni. Li facciamo scappare e li catturiamo. Facciamo percorsi per i ragni. Smontiamo i giocattoli più grossi, ci mettiamo i ragni dentro e li guardiamo mentre cercano di uscire. Proviamo a dare delle formiche ai ragni, ma i ragni le ignorano e quelle scappano via. Proviamo a staccare una zampa a un ragno e lo guardiamo camminare appena un poco fuori asse. Proviamo a staccare due zampe a un ragno. Tre zampe. Un ragno a cui abbiamo staccato tutte le quattro zampe di un lato arranca in diagonale. Guarda questo, fa Federico. Guardo il ragno a cui ha staccato tutte le zampe. Guardo sulla pietra quell povero bottone giallo e nero» (p. 11). Ed ecco, che di gioco in gioco,  di ragno in ragno, il bambino è un adolescente che va al liceo: «Sono ormai indubitamente, e considero me stesso, una persona che patisce di aracnofobia. Tuttavia, essendosi fatte più rare le occasioni di passare una giornata fuori e avendo sviluppato un totale dominio della tecnica della pisciata a occhi chiusi per quanto riguarda le serate di giochi di ruolo, si sono fatte rare anche le occasioni di incontro con i ragni, almeno con quelli reali» (p. 35). La progressione dell’esperienza coi ragni, tra domini reali e virtuali, simbolici e allucinatori (suggestive sono le pagine sull’uso di droghe sintetiche associato ai rave party e si veda, a proposito, anche un articolo di Santoni apparso sul lit-blog «Minima&moralia» dal titolo Psychedelic party), arriva fino al contatto, allo scambio di sangue necrotico, al sacrificio di una parte per il tutto. Fortunatamente Santoni non cita mai l’uomo ragno, la storia va meglio di così. Ai superpoteri si preferisce qualcosa di più famigliare, appunto. Come finisce non ve lo dico di certo, ma se fin qui non vi piace, siete sempre in tempo a comprare l’ultimo libro importante che ha vinto l’ultimo premio importante. Di solito quel tipo di libro non dovete nemmeno ordinarlo; è roba importante a tal punto che la trovate anche al supermercato.

lunedì 18 febbraio 2013

In Vinile, di Sergio Pardini

BEATLES
Sgt Pepper Lonely Heart Club Band.


Quasi imposto da mia figlia ( “tu che lo hai ascoltato al tempo della sua uscita!!  sigh”) di parlare di questo album mi sono trovato indubbiamente in difficoltà, dovendo necessariamente sintetizzare per inserirlo all’interno di un blog, perché un disco così, un capolavoro della musica pop rock, meriterebbe un libro a sé. E poi confrontarmi con scritti di molti famosi autori !
Nell’idea iniziale Sgt. Pepper doveva essere un album che richiamava l’infanzia dei Beatles, per questo avrebbero voluto inserire anche “Penny Lane” e “Strawberry field forever” ma la società discografica insistette perché uscisse del materiale prima che l’album fosse pubblicato, infatti questi due pezzi uscirono in un 45 giri circa tre mesi prima. Penny Lane è una rotonda – che gli abitanti di Liverpool chiamano Penny Lane Roundabout , il posto era dotato di una pensilina per l’attesa degli autobus, che fu poi trasformato nel Sgt Pepper’s Café/Bistrot, (adesso credo sia chiuso) nelle vicinanze c’è la St. Barnabas Church e dato che Paul era uno dei coristi della chiesa, era frequente che John  e Paul si incontrassero proprio sotto quella pensilina, mentre Strawberry field era il giardino di un ex orfanatrofio, dove si svolgevano fiere e feste estive, e si trovava proprio davanti alla casa di John Lennon : “ …lui andava spesso a giocare in quei giardini e così per lui è rimasto un posto magico dell’infanzia, l’abbiamo trasformato in una specie di sogno psichedelico per farlo diventare magia infantile per tutti e non solo per noi” P.Mc Cartney.
Tornando al 33 giri, di sicuro questo album assicurò ai Beatles un posto nella storia della musica, nonostante avessero già raggiunto molta popolarità e successo con i loro precedenti lavori, Sgt Pepper fu davvero un capolavoro di dirompente novità. E anche in seguito, per esempio, l’album Revolver, pure se probabilmente superiore dal punto di vista musicale, non ebbe lo stesso impatto popolare e sociale, così come gli altri a venire. Secondo George Martin questo lavoro “ trasformò i Beatles da un normale gruppo rock in artisti che davano un significativo contributo alla storia dell’arte musicale”. Anche la confezione è significativa: la foto della copertina è piena di riferimenti più o meno criptici: i Beatles hanno voluto dietro di sé parecchi personaggi (fra i più famosi: Stockhausen, Bob Dylan, Karl Marx, Oscar Wilde, Gandhi, Marilyn Monroe, Stan Laurel, Oliver Hardy, vari Guru indiani e molti altri)che avevano segnato e influenzato in qualche modo la loro vita, ma non mancavano molti riferimenti importanti e decisamente inquietanti come Aleister Crowley (il padre del moderno occultismo) e le piante che erano intorno alla cassa con la scritta Sgt. Pepper ai loro piedi sono le piantine della marijuana e per la prima volta di un gruppo rock apparvero i testi sul retro.Una curiosità: in un bootleg di una delle registrazioni si sente la voce di John all’inizio che dice, ritmandola: “sugarplum fairy” era una frase che lui sostituiva con il classico conteggio all’inizio 1-2-3-4, “soltanto Lennon poteva trovare un modo così strampalato per non dire dei semplici numeri
Sugarplum fairy è una espressione slang di quegli anni che stava a significare “spacciatore di droga”.
Se si considerano le canzoni singolarmente non si possono valutare una ad una fra le migliori registrate dal gruppo, ma le canzoni si accendono a vicenda, regalando forza e significato all’insieme.
L’inizio con dei mormorii di un pubblico e i suoni degli strumenti che vengono accordati provocano l’illusione che sia un’esibizione dal vivo, dando davvero  l’impressione di quattro ragazzi che cantano sul palco con indosso vestiti colorati delle foto di copertina,  e nel finale del pezzo mentre cambia il ritmo  Paul “presenta” il cantante “the one and only Billy Shears” (il vero e unico Billy Shears) e senza interruzioni entra subito Ringo Starr in “With a little help from my friends”  che quasi si scusa dicendo “”What would you do if I sang out of tune” (cosa farete se cantassi stonato) ma appena subito fa capire che riuscirà a cantare bene con questo piccolo aiuto da parte degli amici. Questa canzone, come racconta Paul, fu scritta proprio perché la cantasse Ringo  : Era stata scritta soprattutto da  John proprio esclusivamente per Ringo, quasi un lavoro di “mestiere”. Era una sfida, era qualcosa fuori dal solito per noi perché in realtà abbiamo dovuto scrivere pensando come  Ringo avrebbe potuto interpretarla.” E il risultato fu certamente ottimo, come ha detto il critico Mellers di Starr “ lui è quello che ha meno talento, tuttavia ha un’identità inconfondibile, sarà sufficiente se ci sarà un po’ d’amore” : voglio riportare una fra di Woody Allen: “mi piace perché è più brutto di me.”
“Lucy in the sky with diamond”, è un salto psichedelico, con “Immaginati in una barca su un fiume
con alberi di mandarino e cieli di marmellata qualcuno ti chiama, tu rispondi lentamente una ragazza con occhi di caleidoscopio Fiori di cellophane gialli e verdi svettano sopra di te cerchi la ragazza con il sole negli occhi e se n’è andata Lucy nel cielo con diamanti………….Immaginati sul treno in una stazione con facchini di plastilina con cravatte di specchio all’improvviso c’è qualcuno al cancelletto la ragazza con occhi di caleidoscopio”,
Lennon ha sempre detto che questo pezzo,al contrario dell’opinione di molti, niente aveva a che fare con LSD e che trasse ispirazione da un  disegno fatto a scuola da suo figlio Julian., anche se poi ammise che le sue esperienze con questo tipo di droga avevano influito sulla stesura finale, la BBC bandì la canzone dalle sue trasmissioni, anche perché anche il titolo era proprio un acronimo di LSD (Lucy in the Sky with Diamond). In seguito ci fu un’altra versione riguardante l’ispirazione, John e Paul dissero che il testo era stato ripreso da Alice nel paese delle meraviglie, ma qualunque ne sia la provenienza resta un fantastico viaggio in una terra inesistente che forse non è poi così irraggiungibile.
Nella registrazione c’è una ricerca da parte dei Beatles di rumori e suoni non convenzionali e affascinanti come per esempio l’inizio di “Gettin Better” nella quale George Martin invece di premere i tasti del pianoforte lo aprì e percosse le corde con una bacchetta. Questa canzone è un classico dosaggio fra i due compositori e interpreti, la voce di Paul potente e allegra quella di John è in falsetto, e volutamente bizzarra, l’una però non sminuisce la presenza dell’altra. Leggenda vuole che la frase “i can’t get no worse” (non può andare peggio) fu inserita di botto da John mentre Paul stava facendo sentire la canzone, suonandola al pianoforte. in modo che Martin, George e Ringo la  imparassero.
All’inizio doveva seguire “She’s leaving home” ma poi la sequenza della prima facciata fu proposta in modo diverso e fu inserita “Fixing a Hole”.Canzone scritta interamente da Paul e apprezzata da John per il testo:
“Sto riparando un buco che lascia entrare la pioggia e impedisce alla mia mente di vagare dove vuole…Mi sto prendendo il tempo per una quantità di cose che ieri non erano importanti…Sto riparando un buco che lascia entrare la pioggia e impedisce alla mia mente di vagare dove vuole, dove vuole” Poichè Abbey Road non era disponibile, la prima seduta di registrazione per Fixing A Hole si tenne al Regent Studio di Londra, Mentre usciva di casa per andare allo studio, McCartney incontrò un uomo che affermava di essere Gesù Cristo. Dopo avergli offerto da bere ed ottenuta la promessa che sarebbe rimasto tranquillo, portò l'uomo alla registrazione, alla quale egli assistette educatamente in un angolo, prima di scomparire per sempre.
Poi la bellissima “She’s leaving home” la fuga al mattino presto di una adolescente, ispirata da una notizia apparsa su un giornale londinese, è l’incomprensione totale fra due generazioni mentre “the father snores” (il padre russa) la madre che legge il biglietto d’addio e “Daddy, our babe is gone”, (papà la nostra bambina se n’è andata) con l’amara considerazione : “What did we do that is wrong?-we didn’t  know it was wrong” (dove abbiamo sbagliato, non sapevamo di aver sbagliato)
Tutto questo accompagnato da una incredibilmente dolce e memorabile melodia, con gli archi che, anche se morbidi e commoventi, non risultano mai sdolcinati. E’ una delle poche partiture musicali non trascritta da Martin e oltre a John e Paul suonano solo musicisti esterni al gruppo, e secondo il mio parere e anche quello di parecchi altri, è una delle migliori creazioni dei due autori.
« John e io scrivemmo "She's Leaving Home" insieme. L'ispirazione fu mia. Avevamo letto sul giornale la notizia di una ragazza che era scappata di casa per non tornare mai più, ce ne erano molte di storie così all'epoca, e questo bastò a darci la linea di base per la canzone. Così iniziai a buttar giù il testo: lei se ne va di notte e lascia un biglietto e poi i suoi genitori si svegliano ... Mi piaceva come canzone, e quando la feci vedere a John, lui aggiunse quelle lunghe note sostenute, e una delle cose che preferisco della struttura del brano è che rimane sospesa su quegli accordi, all'infinito. Ti cattura sul serio. È un piccolo trucchetto e penso che funzioni molto bene(.Paul).
Forse ascoltando il “bye bye” finale di Lennon si ha quasi l’impressione che finisca la prima parte del disco, invece a chiudere la prima facciata esplode “ Being the benefit of mr Kite” scritta interamente da John, che voleva all’interno di questo pezzo una atmosfera da circo “voglio sentire l’odore di segatura”  voleva addirittura inserire i suoni una calliope (Calliope”, era un ingombrante strumento musicale della seconda metà dell’ottocento di grande potenza sonora, e per questo utilizzato sui battelli a vapore del Mississippi, nelle fiere, nei parchi pubblici, nelle giostre dei luna park, nelle sfilate dei circhi americani.”) Ma era davvero materialmente impossibile trasferire un attrezzo di quelle dimensioni in uno studio di registrazione, e i suoni registrati trovati da Martin di quello strumento  erano solo marce militari, la strampalata idea fu di trasferire tutte queste marcette su un unico nastro che poi fu tagliato fisicamente a pezzi, poi il tecnico lanciò in aria tutti questi più o meno brevi frammenti e “piovvero pezzi di nastro per tutta la sala di controllo” .I pezzetti vennero poi attaccati uno all’altro ma in un ordine casuale che formarono infine la stravagante massa di suoni che accompagnano “Mr Kite
La seconda facciata del LP si apre con una canzone di Harrison, “Whiting you without you” (..la vita scorre….dentro di te e senza di te) considerata da Martin “abbastanza malinconica e lamentosa”, ma ai Beatles piaceva e gli strumenti indiani gli davano un carattere inconsueto e particolare e come spesso accade nei testi di Harrison, c’è sempre qualcosa di spirituale, come l’attenzione a coloro che “gain the world and lose their soul” (conquistano il mondo e perdono l’anima). Si pensa che Harrison, già influenzato dalle filosofie orientali, si sia ispirato al poeta indiano Tagore. Un pezzo molto intimo e forse da rivalutare ascoltandolo con attenzione.
La canzone che segue “When i’m sisty-four” era stata scritta in realtà da Paul quando aveva appena quindici o sedici anni, ed era rimasta a metà per lunghi anni, pezzo che nella sua idea originale doveva suonare un po' nello stile di Frank Sinatra, ma non in modo caricaturale, ma dimostrazione dell’interesse di Paul per tutti i generi musicali. Nella incisione sembra abbiano voluto riportarlo a quell’età con la sua voce accelerata come per farle assumere un tono da ragazzino, la musica ha l’atmosfera dei vecchi musical inglesi, con l’intrusione divertente però dei clarinetti, canzone insolita ma che è diventata fra le più conosciute del gruppo. Il motivo della decisione di incisiderla potrebbe essere il fatto che Jim McCartney, padre di Paul, aveva compiuto 64 anni proprio in quell’anno.
Lovely Rita” dicono i quattro, fu una delle più divertenti da registrare, i rumori che si sentono durante tutto il brano sono stati realizzati usando dei pettini ricoperti di carta igienica usati come percussioni  e furono inseriti alla fine durante la incisione delle voci, sulla base ritmica già registrata con il vivace assolo di Martin al pianoforte, e alla fine della registrazione, stimolati dal solito Lennon, cominciarono a competere suoni stravaganti , gemiti e respiri e altre bizzarrie vocali che si possono sentire soprattutto nella dissolvenza finale. Secondo certe fonti, l'ispirazione per la canzone giunse a McCartney quando una vigilessa, (meter maid in slang) di nome Meta Davis, gli fece una contravvenzione divieto di sosta fuori degli studios di Abbey Road, invece di contestarla, Paul accettò con garbo la multa per poi descrivere la ragazza sarcasticamente  in musica: “Dolce Rita, ragazza parchimetro niente può mettersi tra noi quando fa buio mi traino via il tuo cuore stava accanto ad un parchimetro quando intravidi Rita che riempiva un biglietto nel suo libriccino bianco”.


Una curiosità :secondo il batterista dei Pink Floyd, Nick Mason, i quattro membri originari del gruppo (Syd Barrett, Roger Waters, Rick Wright, e Mason) erano presenti in studio ad assistere mentre i Beatles registravano Lovely Rita.
Anche a “Good morning, good morning” vennero aggiunti molti effetti sonori, come il gallo che canta all’inizio e quell’insieme di voci di animali nel finale, ma di certo non è solo un complesso di espedienti sonori, anticipando i temi della canzone finale “A day in the life” è uno sguardo iroso sulla piattezza e sui drammi di ogni giorno, che rappresentano l’intontimento generale fra le preoccupazioni giornaliere del vivere quotidiano. Ma in fondo va bene a tutti così “I’ve nothing to say but is ok” (non ho niente da dire ma è tutto ok). L’arrangiamento con la forza degli ottoni e l’assolo di chitarra che credo sia di Paul, danno una forte energia e speranza di poter ancora sorridere, magari con un po’ di fortuna. Il chiocciare della gallina nel finale si mescola alle prime note della ripresa di Sgt Pepper, in una versione più veloce e più hard della precedente a inizio disco, come a rappresentare il finale convulso di una gara di corsa.
“A day in the life” che chiude tutto il disco,  si potrebbe definire una sinfonia moderna in taglio pop, soli tre minuti ma capaci di trasmettere emozioni e capacità musicali che per riuscire a farlo probabilmente ad altri sarebbe servito un’ora di musica. Il “messaggio” nelle parole di Lennon è che la vita è un sogno e ognuno ha il potere, come sognatore di renderla magnifica. Il crescendo finale con il rimbombante accordo in mi minore era, a parere di alcuni, nell’intenzione dei Beatles evocare il suono di una esplosione nucleare, incubo e preoccupazione soprattutto in quegli anni.
Alla fine della registrazione della canzone, si dice che, tutti i presenti nello studio, istintivamente applaudirono al risultato finale.
Spero in questo breve scritto di essere riuscito a sintetizzare in maniera almeno gradevole le considerazioni su questo disco, che sicuramente ha avuto commenti e recensioni molto più complesse e importanti della mia da parte di parecchi critici e storici di fama.
Concludendo, George Martin dirà in seguito che: “anche se Sgt Pepper non fu l’album migliore dal punto  di vista musicale, lo fu certamente dal punto di vista artistico e storico, metteva in luce tutte le qualità che avevano reso i Beatles i più importanti della loro epoca , e metteva in risalto  il loro  coraggio, l’inventiva, la creatività, il senso dell’umorismo e la versatilità dei quattro componenti, non dimenticando mai di aggiungere la loro grandissima abilità compositiva”
Quale dimostrazione  migliore per comprovare che  loro erano, come cantava la Pepper Band “the one and only”? I soli e gli unici.
P.S.
Non avrei voluto nemmeno accennarne ma, era il 12 Ottobre 1969, Russell Gibb, disk jockey di una radio di Detroit annunciò di avere le certezza che Paul McCartney fosse morto nel 1966 e che un sosia lo avrebbe sostituito grazie alla sua somiglianza con Paul ed alla plastica facciale: William Campbell, un ex poliziotto. La “leggenda” fece il giro del mondo in pochi attimi, e a suffragarne la veridicità alcuni  presero in esame proprio la copertina di Sgt Pepper con argomentazioni a volte anche bizzarre per esempio: la folla di gente famosa già morta e i Beatles al centro, prendendo uno specchietto e appoggiandolo perpendicolarmente tra le parole "Lonely" e "Hearts", ( ma chi lo ha pensato?) sulla grancassa della batteria, si può leggere una cosa come "He  Die" ("Lui , Morire"), con una sorta di freccia puntata verso Paul, nella parte interna della copertina è ritratto Paul con un distintivo su un braccio, su cui si leggono le lettere OPD, che starebbero per "Officially Pronounced Dead" ("Ufficialmente dichiarato morto") e nel retro del disco è l’unico di spalle nella foto. Solo per dovere di cronaca e curiosità.

mercoledì 13 febbraio 2013

Post Flash Art Event


 
Si è chiusa domenica sera ieri la prima edizione di Flash Art Event che, dall'8 al 10 febbraio, ha animato gli spazi del Palazzo del Ghiaccio (via Piranesi 14, Milano).
All’inizio mi sono detta, un’altra fiera perché? Non ce ne sono anche troppe? Poi però, mi sono dovuta ricredere.

 
 
Organizzata dalla rivista Flash Art, e fortemente voluta al suo direttore giancarlo politi, che ha deciso di debuttare proprio in quest'anno, diciamolo pure, non facilissimo per il mondo dell'arte. Come ho detto mi sono dovuta ricredere, poichè la qualità era molto elevata, artisti giovani, stand ben allestiti e tantissimi visitatori, aiutati anche dalla scelta dell'entrata gratuita. Altra particolarità i prezzi più o meno modici, sia per i collezionisti (prezzi che partivano da un minimo di 1000 euro) sia per i galleristi, poichè gli stand costavano anche un decimo della tariffa ordinaria delle grandi fiere.
 
 
 A questa prima edizione hanno aderito 54 gallerie tra cui Christian Stein, Gian Enzo Sperone, Pio Monti, Contini, Santo Ficara, Lia Rumma, Massimo De Carlo, Galleria Pack, Invernizzi, Primo Marella, Bonelli, Claudio Poleschi. Ogni stand presentava una mostra personale o specifici progetti curatoriali.
 
 
Massimo Minini, ha invece presentato un percorso per celebrare i 40 anni della galleria, mentre Cà di Fra ha proposto una selezione di opere di Hugo Pratt, Milo Manara e Fabio Civitelli. Fra le gallerie che hanno proposto monografie: Artra con Blue And Joy con le loro opere fatte di pillole, Workshop che presenta la giovane ed affermata, oltre che criticatissima artista Polly Morgan, (opere con animali impagliati); Otto Zero con una personale dell’artista indiana Mithu Sen.
 
 
 
 
Inoltre è stata allestita la mostra degli studenti di NABA - Nuova Accademia di Belle Arti ideata e curata da Marcello Maloberti, Igor Muroni e Arianna Rosica. Con una scelta di studenti selezionati dai corsi di Pittura, Arti Visive e Sound Design, coinvolti nel progetto Amore mio, che prende le mosse dalla collettiva omonima organizzata nel 1970 a Montepulciano, in Toscana, e curata da Achille Bonito Oliva. L’intenzione è quella di creare una mappatura sulle  ultime esperienze artistiche senza alcun intervento da parte della critica, ma semplicemente lasciando gli artisti liberi di esprimersi e presentarsi al pubblico.