sabato 22 giugno 2013

Librazioni, di Diego Bertelli. Giugno



La regola finora taciuta delle mie Librazioni è la seguente: parlare solo di libri usciti dopo il 2010. Ma le regole, si sa, sono fatte per… Ecco allora che succede quel che succede: l’oggetto della mail è «regalino» e quando Marco Simonelli esordisce così ci si può aspettare di tutto. Bisogna aprire con cautela e credo che sia stata la miglior cosa nel caso di quel messaggio. È il primo giugno, sono le 7 del mattino e per chi conosce Simonelli non solo come poeta sa anche che non si è svegliato presto per scrivermi: «qui trovi una scansione che ho fatto oggi di un libro bellissimo, forse lui l'hai conosciuto o incrociato a Yale... Secondo me è potentissimo e mi piacerebbe tradurre qualche poesia […]. Ma in generale, è una lettura che ti consiglio fortemente. Peccato lui sia morto in circostanze tremende...».
Non dice altro quel night owl di Simonelli, perciò il resto lo faccio da solo. Scarico, «unzippo» e apro in preview Shells di Craig Arnold (Yale Series of Younger Poets, 1999). Io, Arnolds, non l’ho incrociato. Lo Yale Younger Poets Award lo vince nel 1998, ma il Bachelor risale a nove anni prima. Vado a vedermi anche se trovo qualche info su di lui, una foto, ho bisogno di visualizzarlo. Eccolo in alto a destra su Google: rasato, anzi, no, calvo, volto ovale, mi dà l’idea che fosse alto, chissà se ho ragione… A sinistra, più in basso, sbuca fuori una pagina wiki. Leggo i basic facts: Arnolds insegnava poesia all’Università del Wyoming, aveva preso il Bachelor a Yale nel 1989 (wiki dice 1990, ma si sa…), poi il Ph.D. in creative writing all’Università dello Utah concluso nel 2001. Dice che è scomparso nel 2009 in Giappone, durante un’escursione sull’isola vulcanica di Kuchinoerabu. Io in quell’anno svolgevo ricerca in Germania, per cui non ne ho sentito parlare a Yale, anche se di certo lo avranno ricordato.
Dopo Wiki intravedo la pagina di Poetry Foundation, editore della splendida Poetry Magazine, che per me resterà sempre legata a Emanuel Carnevali. Di queste info mi fido: pare che la morte sia dipesa da una caduta dall’alto di una scogliera, sebbene Arnolds fosse sull’isola per il vulcano; pare che la sua presenza lì avesse a che fare col libro a cui stava lavorando. Mi viene in mente che c’è qualcosa di classico in lui: da una parte, in quella ricerca, un che di virgiliano; dall’altra, di pliniano. Di certo c’è solo che il suo corpo non è mai stato ritrovato. In ogni caso, la prima raccolta di versi si intitola Shells e penso che per lui un’isola vulcanica sia stato il luogo perfetto dove riposare.
È mentre penso quello che penso che non valuto di far subito quello che sto per fare, ma lo faccio. Sebbene non ci sia ne nessun motivo per collegare Arnolds a Carnevali, lo faccio. È come in quei giochi per bambini dove dovresti inserire le forme nella sagoma giusta; qui però sembra proprio di voler infilare un quadrato in un cerchio: si sentono raschiare gli spigoli È vero: entrambi hanno campato quasi gli stessi anni, quarantadue, il primo, quarantacinque, il secondo; Arnolds è andato a Yale, mentre Carnevali ha lavorato come cameriere allo Yale Club di New York più di mezzo secolo prima; Arnold è stato in Italia (grazie al Joseph Brodsky Rome Prize Fellowship from the American Academy of Arts and Letters), Carnevali ha vissuto in America (seppure in condizioni di assoluta precarietà); in tempi molto diversi, entrambi hanno pubblicato le loro poesie su Poetry Magazine, la rivista fondata da Henriette Monroe, di cui Carnevali sarebbe diventato per un breve periodo vicedirettore.


Eppure quello che li accomuna non sono queste rassomiglianze vaghe, ma qualcosa di più profondo: il loro amore per il viaggio e per la natura. Non so se siete d’accordo, ma ne Il Primo Dio, una volta lette, non si riescono a scordare le pagine in cui Carnevali racconta dei mesi vissuti in uno shack sul lago Michigan: i bagni al mattino, il nutrimento quasi esclusivo di avena; il suo è un incontro esaltante con l’ambiente naturale, che tanto ricorda Thoureau. Si tratta di una compenetrazione profonda che è presente sin dall’inizio anche in Shells, quando Arnolds cita Whitman di Song to Myself, «To be in any form, what is that?», e di seguito Feuerbach, che assimila l’identià dell’uomo al cibo che mangia. Esattamente il proteiforme e l’organico dell’uomo e del cibo sono le due cifre più sensibili di Shells: è lì che si incontrano i gusci e i corpi delle persone; è lì che si rivelano scheletro e sostanza dei rapporti umani. Non voglio fare un’analisi, ma dirvi quasi ingenuamente che sono poesie molto belle, con un carattere di storia vera, senza filtri, da sembrare «raccontate». Immaginate di dire a un amico di un fatto, magari a proposito di un altro amico, di quello che è successo, ma come non lo sai? Vi faccio un esempio, che poi è anche uno dei miei testi preferiti: «Una chiamata improvvisa, per farmi sapere che una nostra cara amica / passati sette anni ha mollato il suo ragazzo / E perché? Perché lui l’ha picchiata. Più di una volta? Dice: sin dall’inizio, da quando uscivano insieme / Ma lei non ha mai fiatato… Forse aveva paura / di quello che avremmo pensato. Forse pensava che lui si sarebbe fermato. / Io, per me, mi aspetto sempre il peggio da tutti – scommetto / che a letto dovevano fare scintille. Scommetto che lui sapeva usar bene la lingua». Si tratta di un testo intitolato The Power Grip, che qui potrebbe esser reso con La presa del potere, anche se io tradurrei Presa completa: una tecnica per dare piacere che consiste nel mettere il mignolo nell’ano, anulare, medio e indice nella vagina, lasciando il pollice fuori a strofinare il clitoride. È vero, ha ragione Simonelli, è potentissimo, come lo sono soltanto le cose vere. C’è solo un problema: Arnolds non è tradotto in italiano e a stento si trova nel nostro paese. Ecco una cosa che invece non vorrei accomunasse Arnolds a Carnevali: che ci sono voluti ottanta anni per avere una prima versione italiana di The Hurried Man…  

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