La regola finora taciuta delle mie
Librazioni è la seguente: parlare solo di libri usciti dopo
il 2010. Ma le regole, si sa, sono fatte per… Ecco allora che
succede quel che succede: l’oggetto della mail è «regalino» e
quando Marco Simonelli esordisce così ci si può aspettare di tutto.
Bisogna aprire con cautela e credo che sia stata la miglior cosa nel
caso di quel messaggio. È il primo giugno, sono le 7 del mattino e
per chi conosce Simonelli non solo come poeta sa anche che non si è
svegliato presto per scrivermi: «qui trovi una scansione che ho
fatto oggi di un libro bellissimo, forse lui l'hai conosciuto o
incrociato a Yale... Secondo me è potentissimo e mi piacerebbe
tradurre qualche poesia […]. Ma in generale, è una lettura che ti
consiglio fortemente. Peccato lui sia morto in circostanze
tremende...».
Non dice altro quel night owl di
Simonelli, perciò il resto lo faccio da solo. Scarico, «unzippo» e
apro in preview Shells di Craig Arnold (Yale Series of Younger
Poets, 1999). Io, Arnolds, non l’ho incrociato. Lo Yale Younger
Poets Award lo vince nel 1998, ma il Bachelor risale a nove anni
prima. Vado a vedermi anche se trovo qualche info su di lui, una
foto, ho bisogno di visualizzarlo. Eccolo in alto a destra su Google:
rasato, anzi, no, calvo, volto ovale, mi dà l’idea che fosse alto,
chissà se ho ragione… A sinistra, più in basso, sbuca fuori una
pagina wiki. Leggo i basic facts: Arnolds insegnava poesia
all’Università del Wyoming, aveva preso il Bachelor a Yale nel
1989 (wiki dice 1990, ma si sa…), poi il Ph.D. in creative writing
all’Università dello Utah concluso nel 2001. Dice che è scomparso
nel 2009 in Giappone, durante un’escursione sull’isola vulcanica
di Kuchinoerabu. Io in quell’anno svolgevo ricerca in Germania, per
cui non ne ho sentito parlare a Yale, anche se di certo lo avranno
ricordato.
Dopo Wiki intravedo la pagina di Poetry
Foundation, editore della splendida Poetry Magazine,
che per me resterà sempre legata a Emanuel Carnevali. Di queste info
mi fido: pare che la morte sia dipesa da una caduta dall’alto di
una scogliera, sebbene Arnolds fosse sull’isola per il vulcano;
pare che la sua presenza lì avesse a che fare col libro a cui stava
lavorando. Mi viene in mente che c’è qualcosa di classico in lui:
da una parte, in quella ricerca, un che di virgiliano; dall’altra,
di pliniano. Di certo c’è solo che il suo corpo non è mai stato
ritrovato. In ogni caso, la prima raccolta di versi si intitola
Shells e penso che per lui un’isola vulcanica sia stato il
luogo perfetto dove riposare.
È mentre penso quello che penso che
non valuto di far subito quello che sto per fare, ma lo faccio.
Sebbene non ci sia ne nessun motivo per collegare Arnolds a
Carnevali, lo faccio. È come in quei giochi per bambini dove
dovresti inserire le forme nella sagoma giusta; qui però sembra
proprio di voler infilare un quadrato in un cerchio: si sentono
raschiare gli spigoli È vero: entrambi hanno campato quasi gli
stessi anni, quarantadue, il primo, quarantacinque, il secondo;
Arnolds è andato a Yale, mentre Carnevali ha lavorato come cameriere
allo Yale Club di New York più di mezzo secolo prima; Arnold è
stato in Italia (grazie al Joseph Brodsky Rome Prize Fellowship from
the American Academy of Arts and Letters), Carnevali ha vissuto in
America (seppure in condizioni di assoluta precarietà); in tempi
molto diversi, entrambi hanno pubblicato le loro poesie su Poetry
Magazine, la rivista fondata da Henriette Monroe, di cui Carnevali
sarebbe diventato per un breve periodo vicedirettore.
Eppure quello che li accomuna non sono
queste rassomiglianze vaghe, ma qualcosa di più profondo: il loro
amore per il viaggio e per la natura. Non so se siete d’accordo, ma
ne Il Primo Dio, una volta lette, non si riescono a scordare
le pagine in cui Carnevali racconta dei mesi vissuti in uno shack
sul lago Michigan: i bagni al mattino, il nutrimento quasi esclusivo
di avena; il suo è un incontro esaltante con l’ambiente naturale,
che tanto ricorda Thoureau. Si tratta di una compenetrazione profonda
che è presente sin dall’inizio anche in Shells, quando
Arnolds cita Whitman di Song to Myself, «To be in any form,
what is that?», e di seguito Feuerbach, che assimila l’identià
dell’uomo al cibo che mangia. Esattamente il proteiforme e
l’organico dell’uomo e del cibo sono le due cifre più sensibili
di Shells: è lì che si incontrano i gusci e i corpi delle
persone; è lì che si rivelano scheletro e sostanza dei rapporti
umani. Non voglio fare un’analisi, ma dirvi quasi ingenuamente che
sono poesie molto belle, con un carattere di storia vera, senza
filtri, da sembrare «raccontate». Immaginate di dire a un amico di
un fatto, magari a proposito di un altro amico, di quello che è
successo, ma come non lo sai? Vi faccio un esempio, che poi è anche
uno dei miei testi preferiti: «Una chiamata improvvisa, per farmi
sapere che una nostra cara amica / passati sette anni ha mollato il
suo ragazzo / E perché? Perché lui l’ha picchiata. Più di una
volta? Dice: sin dall’inizio, da quando uscivano insieme / Ma lei
non ha mai fiatato… Forse aveva paura / di quello che avremmo
pensato. Forse pensava che lui si sarebbe fermato. / Io, per me, mi
aspetto sempre il peggio da tutti – scommetto / che a letto
dovevano fare scintille. Scommetto che lui sapeva usar bene la
lingua». Si tratta di un testo intitolato The Power Grip, che
qui potrebbe esser reso con La presa del potere, anche se io
tradurrei Presa completa: una tecnica per dare piacere che
consiste nel mettere il mignolo nell’ano, anulare, medio e indice
nella vagina, lasciando il pollice fuori a strofinare il clitoride. È
vero, ha ragione Simonelli, è potentissimo, come lo sono soltanto le
cose vere. C’è solo un problema: Arnolds non è tradotto in
italiano e a stento si trova nel nostro paese. Ecco una cosa che
invece non vorrei accomunasse Arnolds a Carnevali: che ci sono voluti
ottanta anni per avere una prima versione italiana di The Hurried
Man…
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