domenica 3 marzo 2013

Nell'occhio del ciclope, di Giacomo Lucarini





ALEJANDRO JODOROWSKY, LO PSICOMAGO SURREALISTA DEL CINEMA

Il mestiere di regista, è noto, non si impara a scuola: raccontare per immagini è un talento spesso innato che alcune persone riescono a coronare facendo ricorso al mezzo più potente, rischioso e leggendario della nostra società, il cinema. Molti artisti provenienti da altre forme espressive vi si sono cimentati, con esiti a dir poco altalenanti. Uno dei casi più compiuti e clamorosi è quello di un individuo che è la summa dell’indefinibile e dell’azzardo esistenziale: Alejandro Jodorowsky, cileno apolide e drammaturgo, regista, clown, mimo, poeta, scrittore, (psico)mago, musicista, fumettista, ma soprattutto surrealista. Nato nel 1929, da immigrati ebrei ucraini, dopo l’adolescenza fugge in Francia dove fonda ilMovimento Panico con Fernando Arrabal e Roland Topor ed è allievo di Marcel Marceau, per il quale scrive diverse opere.
Ha legato il suo nome però indelebilmente al cinema, grazie ad alcuni indiscussi cult entrati di prepotenza nella storia grazie alla potenza del surrealismo e della sperimentazione simbolistico-lisergica.


Non per niente il regista/autore a cui viene accostato con più insistenza è l’immenso 
Luis Buñuel, uno dei suoi riconosciuti punti di riferimento, però certamente più metodico e sottile, dopo il primo periodo di fuoco (tra gli anni ’20 e ’30 del Novecento) nel suo cinema-terrorismo nei confronti della normalità, della morale, del conformismo. Jodorowsky, invece, non rinnega e non prova mai, anche sul grande schermo, a frenare la sua indole accumulatrice, il suo talento affabulatorio, l’immaginario eccessivo e una (anti)narrazione cialtronescamente affascinante: il risultato sono un pugno di pellicole nel migliore dei casi consegnate alla storia e pirotecniche, nel peggiore barocche e implose ma grondanti segni e simboli.



Qui parlerò brevemente delle sue opere, anche se più che mai vale la regola di vedere e farsi inghiottire dal gorgo del folle universo magico che creano: le parole sono quanto mai impotenti. La prima prova di Jodorowsky su grande schermo è del 1968, in Messico, con Il paese incantato (Fando y Lis, da una pièce di Arrabal), storia d’amore folle e viaggio (salvifico?) verso il leggendario paese di El Tar da parte di un vagabondo posseduto, Fando, e una paralitica, Lis. Ma il loro itinerario, costellato da incontri più o meno simbolici e reali, dimostrerà che il male dentro l’umanità forse è più forte del loro desiderio di raggiungere l’Eden. Dopo questo “battesimo” con la Settima Arte, arriva la prima opera di un dittico leggendario, El Topo (1971): western metafisico ed esistenziale, in cui un pistolero-profeta (lo stesso Jodorowsky, anche sceneggiatore, scenografo, direttore della fotografia e compositore) deve sconfiggere Quattro Maestri, passando poi per una via crucische passa dal tradimento alla trasfigurazione. L’autore non si fa mancare niente: bambini abbandonati, monaci, donne velate con voce da uomo, nani, esseri deformi, coniglietti squartati, duelli con morti violente e grafiche, misticismo… El Topo è, non a caso, il nome del protagonista, la talpa che scava gallerie e quando arriva alla luce del sole si acceca. Il Festival di Cannes è il luogo che consacra il film e crea un seguito “vip” all’ormai riconosciuto genio del Nostro.


La seconda parte del binomio del surrealismo cinematografico degli anni ’70 arriva un paio di anni dopo, quel La Montagna Sacra (La Montaña Sagrada) che viene finanziato, tra gli altri, anche dalla premiata ditta Lennon-Ono, e diventa da subito il film manifesto della (contro)cultura psichedelica. Ancora una volta, sempre di più, il racconto si fonda su continui simboli, una visionarietà anarchica e scatenata, un esoterismo mirabolante e sfacciato, che costituiscono l’ossatura di un discorso che passa dal profetico al metacinematografico (con uno dei finali più sfacciati e irritanti della storia del cinema). Tra tarocchi e mito dell’immortalità, un ladro sfida un alchimista (indovinate chi lo interpreta…) e con altri individui tenta la scalata alla Montagna per arrivare alla “verità assoluta”: riusciranno nell’impresa?


Satirico, ironico, allucinato, provocatorio: parliamo di statue di cera di Cristo che vengono mangiate e ascendono in cielo con dei palloncini, merda trasformata in oro, nudi, droga, grassoni vestiti da suore, arti marziali psicomagiche che anticipano la Sacra scuola di Hokuto di Ken il guerriero e molto altro. Tutto questo in una storia a suo modo lineare e coerente, benché dispersiva a ambiziosissima. Un trip cinematografico che rende La Montagna Sacra la summa di un immaginario unico e irripetibile dell’epoca.

Inevitabili i sequestri della pellicola e i processi per vilipendi e offese a religione e morale… certificazione di qualità e di successo dell’operazione.
Dopo questa vetta (in tutti i sensi), Jodorowsky un po’ si “scotta” nel tentativo di entrare in un tipo di cinema più istituzionalizzato, un po’ si dedica ad altro, con decine di progetti tra cui la collaborazione con il ganiale e innovativo disegnatore Moebius per L’Incal, pietra miliare del fumetto. La rentrée nella settima arte è nel 1980 con Tusk, trasposizione delle sue memorie circensi giovanili, con la storia parallela di una ragazza inglese e di un elefante indiano, tratto da un libro per ragazzi. Opera sfortunata per traversie realizzative e ricezione da parte della critica. Un film nond’autore nè pazzo come i precedenti, ma innegabilmente ben diretto e con un gusto visivo magnifico sebbene imbrigliato. Il risultato finale comunque non piacque moltissimo neppure al suo autore, per le ingerenze dei finanziatori.





Dobbiamo attendere il 1989 e la passione del produttore nostrano Claudio Argento (fratello di Dario) per la nuova opera di Jodo: si tratta del controverso Santa Sangre. Controverso perché, passati i fasti degli anni ’70, sebbene la passione e la vena artistica non si siano affatto esaurite, il rischio deja vu è dietro l’angolo. A tutt’oggi è difficile esprimere un giudizio limpido e sereno su un film che oscilla tra l’estro sincero e la riproposizione elegante di stilemi e ossessioni precedenti. Stavolta a fare da cornice però è un “tipico” melodramma, sebbene impastato di sangue e perversione, tra Fellini eArgento, tra kitch e trash: furore, commozione, omicidi, circo, pantomima, amore, tutto illuminato e girato in maniera sublime, al limitare della maniera, come un vero equilibrista. Jodorowsky, nel bene e nel male, colpisce ancora nel segno con un’ultima zampata divenuta un vero e proprio culto nel circuito dei midnight movies.



Dico così perché l’ultimissima prova sul lungometraggio, a tutt’oggi, è poco convincente: Il ladro dell'arcobaleno (The Rainbow Thief, 1990) parte con ottimi presupposti come l’ambientazione tra i clochard di Parigi e un cast che schiera Peter O'Toole, Omar Sharif e Christopher Lee, ma tolto qualche momento di forte impatto visivo (le fogne trasfigurate, un’alluvione rovinosa) non si eleva mai da un didascalico squadernamento “semplificato” della retorica dell’autore. La storia che sconfina nel patetismo non aiuta… perciò, meglio dimenticare in fretta.
Verso la fine degli anni ’70 avrebbe dovuto legare il suo nome a quella che sarebbe potuta essere l’opera del connubiodefinitivo tra immagini, letteratura, arte, cinema, storia, fantascienza, filosofia, società: ovvero, la trasposizione dell’epico e fluviale romanzo Dune di Frank Herbert. Un progetto titanico che nella sue mani diventò faraonico, nel vero senso della parola… Ma questa, come si suol dire, è un’altra storia. E ce ne occuperemo la prossima volta.

Nessun commento:

Posta un commento