Mabel dice si.
Luca Ricci
C’è una scena rituale in Mabel
dice sì, l’ultimo racconto lungo di Luca Ricci (Einaudi 2012):
si tratta di un’esperienza cannibalica, in cui l’eponima
protagonista della storia viene servita ai suoi innumerevoli amanti
in piccole porzioni e ancora viva. A raccontarla è l’aspirante
pianista/portiere di notte dell’albergo dove lavora anche Mabel: è
solo un sogno, per quanto vivido, dove è andato a depositarsi un bel
po’ di residuo diurno accumulato accanto a questa ragazza in
apparenza non troppo attraente e vagamente androgina, ma circondata
di uomini a cui dice sempre sì. Mabel non avrebbe nessun problema a
dir di sì anche al nostro romantico e inerme voyeur, ma egli
si trattiene, nella vita e nel sogno; è l’unico che non si nutre
del corpo di lei ma guarda soltanto, mentre perfino Dorina, la donna
che lavora nella cucine dell’albergo, si avvicina curiosa e
famelica.
Mabel, che è corpo, ma prima ancora
qualcos’altro: un nome, strano, per altro. Con questo attributo il
personaggio maschile tenta un primo, goffo dialogo con la ragazza.
Intrappolato con lei dietro il banco della reception, egli spera così
di rompere il ghiaccio. «Mi aspettavo che mi spiegasse per filo e
per segno perché i suoi genitori gliel’avessero dato. Invece si
limitò a una spiegazione tecnica, da dizionario: Mabel era una
leggendaria principessa inglese invocata contro i fulmini e serpenti,
la parola deriva dal verbo latino amare e significa “amabile”».
Con un’associazione del tutto
ingiustificata e un riferimento forse non troppo azzeccato, la scena
del cannibalico convivio di Mabel mi ha fatto pensare a una canzone
presentata a Sanremo giovani circa dieci anni fa. È un pezzo di un
gruppo ormai non più attivo, La Sintesi, intitolato Ho mangiato
la mia ragazza. Il ritornello all’inizio fa così; «Ho
mangiato la mia ragazza / per la mia voglia di conoscere a fondo la
verità…». Insomma, il riferimento è quello che è, ma
l’associazione viene da sé: sapore/sapere. Non so in quanti
abbiano letto o si ricordino Sotto il sole giaguaro di Italo
Calvino, che avrebbe dovuto intitolarsi appunto Sapore sapere.
Il senso è lo stesso, sia in termini di significato sia di
sensazione che ne deriva.
Anche per il protagonista scoprire la
verità su Mabel significa sentirne il sapore, gustarla come si gusta
una «tartina»; invece il nostro mancato Glenn Gould non si perita
di sussurrarle nell’orecchio se sta bene. E Mabel dice sì, anche
in questo caso, come sempre ha detto sì agli uomini. Non resta che
continuare a guardare, a chiedersi se i gemiti di Mabel siano dolore
o piacere. È certamente interessante che del protagonista maschile
di questa storia, a differenza di Mabel, non si sappia neanche come
si chiami. Che i nomi siano la conseguenza delle cose qui è chiaro
più che mai: in dubbio è infatti l’identità di genere del
protagonista, specie di fronte a Mabel e alla sua vita.
Quella della sessualità del
protagonista è una traccia sotterranea, che sale a volte in
superficie, ma senza inquietarlo veramente; egli non sembra capire
quello che Mabel gli dice quando lui prova a toccarla: «Tanto non ti
piace»; egli non sembra neanche rendersi conto che preferisce la
compagnia di Nicola, uno degli amanti di Mabel, o del paracadutista
che vuole aprire una scuola di bungee jumping vicino all’albergo.
La questione è davvero quella del salto. Si tratta di lanciarsi nel
vuoto, e il protagonista ammette la sua paura: per quanto la corda
sia sicura, l’esperienza lineare, verticale del vuoto non fa per
lui. Egli è senza dubbio un carattere circolare e così è la
narrazione: il racconto ha infatti una sorta di cornice speculare
all’inizio e alla fine che sembra proteggerne la formazione (anche
laddove si tratta di una sviluppo mancato): «oggi». Incastonato in
mezzo c’è il passato, ancora presente (come se fosse): «ieri». È
qui che Mabel (in quanto nome e in quanto persona) apre la
narrazione, caratterizzandola fino al raggiungimento dell’equilibrio:
a questo punto la storia potrebbe anche finire, ossia portrebbe
andare avanti all’infinito: nuovi amori, nuovi amanti, ennesimi
fraintendimenti ed ennesime evoluzioni che seguono il corso dell’alta
e della bassa stagione dell’albergo, dove i destini di tutti
finiscono l’uno addosso all’altro come su una pista di
autoscontro: incaponiti, un po’ stolidi, i personaggi di Ricci
rimbalzano e vanno avanti fino a frontale successivo. Invece qualcosa
accade: Mabel scompare, di lei non si sa più nulla. Addirittura c’è
il sospetto di una gravidanza inattesa.
Adesso è arrivato il momento: il
voyeur deve mettersi all’opera. Certamente egli non è
Ulisse, ma un po’ Telemaco è, per quanto la sua ricerca sia quella
di una figura ultrafamigliare, sintesi del mascolino e del femminino.
Soltanto qui comincia la Bildung, il cui senso non sta tanto
nel ritrovare veramente lei; è nel momento della ricerca vana
che il protagonista cresce; viene riconosciuto dagli altri, ottiene
una promozione, acquisisce una sua embrionale identità. Conseguenza
di questa cosa: egli non odia più il suo passato, riconsegna
il pianoforte senza drammi, si sente a suo agio con l’amico
paracadutista e lo invita a cena per festeggiare. È così che egli
ritrova veramente Mabel, ma il ritrovamento è appunto qualcosa di
più di un incontro, della risoluzione dei fatti: è invece lo
splendore dell’enigma. Mabel non ricomparirà, risaltando infine
più che mai; a ridarne il segno, la traccia ormai sepolta, sarà
invece un giovane ragazzo di appena vent’anni, i cui occhi sembrano
ridere come ridevano quelli di lei.
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