lunedì 25 marzo 2013

Librazioni, di Diego Bertelli

Mabel dice si.

Luca Ricci 







C’è una scena rituale in Mabel dice sì, l’ultimo racconto lungo di Luca Ricci (Einaudi 2012): si tratta di un’esperienza cannibalica, in cui l’eponima protagonista della storia viene servita ai suoi innumerevoli amanti in piccole porzioni e ancora viva. A raccontarla è l’aspirante pianista/portiere di notte dell’albergo dove lavora anche Mabel: è solo un sogno, per quanto vivido, dove è andato a depositarsi un bel po’ di residuo diurno accumulato accanto a questa ragazza in apparenza non troppo attraente e vagamente androgina, ma circondata di uomini a cui dice sempre sì. Mabel non avrebbe nessun problema a dir di sì anche al nostro romantico e inerme voyeur, ma egli si trattiene, nella vita e nel sogno; è l’unico che non si nutre del corpo di lei ma guarda soltanto, mentre perfino Dorina, la donna che lavora nella cucine dell’albergo, si avvicina curiosa e famelica.
Mabel, che è corpo, ma prima ancora qualcos’altro: un nome, strano, per altro. Con questo attributo il personaggio maschile tenta un primo, goffo dialogo con la ragazza. Intrappolato con lei dietro il banco della reception, egli spera così di rompere il ghiaccio. «Mi aspettavo che mi spiegasse per filo e per segno perché i suoi genitori gliel’avessero dato. Invece si limitò a una spiegazione tecnica, da dizionario: Mabel era una leggendaria principessa inglese invocata contro i fulmini e serpenti, la parola deriva dal verbo latino amare e significa “amabile”».
Con un’associazione del tutto ingiustificata e un riferimento forse non troppo azzeccato, la scena del cannibalico convivio di Mabel mi ha fatto pensare a una canzone presentata a Sanremo giovani circa dieci anni fa. È un pezzo di un gruppo ormai non più attivo, La Sintesi, intitolato Ho mangiato la mia ragazza. Il ritornello all’inizio fa così; «Ho mangiato la mia ragazza / per la mia voglia di conoscere a fondo la verità…». Insomma, il riferimento è quello che è, ma l’associazione viene da sé: sapore/sapere. Non so in quanti abbiano letto o si ricordino Sotto il sole giaguaro di Italo Calvino, che avrebbe dovuto intitolarsi appunto Sapore sapere. Il senso è lo stesso, sia in termini di significato sia di sensazione che ne deriva.
Anche per il protagonista scoprire la verità su Mabel significa sentirne il sapore, gustarla come si gusta una «tartina»; invece il nostro mancato Glenn Gould non si perita di sussurrarle nell’orecchio se sta bene. E Mabel dice sì, anche in questo caso, come sempre ha detto sì agli uomini. Non resta che continuare a guardare, a chiedersi se i gemiti di Mabel siano dolore o piacere. È certamente interessante che del protagonista maschile di questa storia, a differenza di Mabel, non si sappia neanche come si chiami. Che i nomi siano la conseguenza delle cose qui è chiaro più che mai: in dubbio è infatti l’identità di genere del protagonista, specie di fronte a Mabel e alla sua vita.
Quella della sessualità del protagonista è una traccia sotterranea, che sale a volte in superficie, ma senza inquietarlo veramente; egli non sembra capire quello che Mabel gli dice quando lui prova a toccarla: «Tanto non ti piace»; egli non sembra neanche rendersi conto che preferisce la compagnia di Nicola, uno degli amanti di Mabel, o del paracadutista che vuole aprire una scuola di bungee jumping vicino all’albergo. La questione è davvero quella del salto. Si tratta di lanciarsi nel vuoto, e il protagonista ammette la sua paura: per quanto la corda sia sicura, l’esperienza lineare, verticale del vuoto non fa per lui. Egli è senza dubbio un carattere circolare e così è la narrazione: il racconto ha infatti una sorta di cornice speculare all’inizio e alla fine che sembra proteggerne la formazione (anche laddove si tratta di una sviluppo mancato): «oggi». Incastonato in mezzo c’è il passato, ancora presente (come se fosse): «ieri». È qui che Mabel (in quanto nome e in quanto persona) apre la narrazione, caratterizzandola fino al raggiungimento dell’equilibrio: a questo punto la storia potrebbe anche finire, ossia portrebbe andare avanti all’infinito: nuovi amori, nuovi amanti, ennesimi fraintendimenti ed ennesime evoluzioni che seguono il corso dell’alta e della bassa stagione dell’albergo, dove i destini di tutti finiscono l’uno addosso all’altro come su una pista di autoscontro: incaponiti, un po’ stolidi, i personaggi di Ricci rimbalzano e vanno avanti fino a frontale successivo. Invece qualcosa accade: Mabel scompare, di lei non si sa più nulla. Addirittura c’è il sospetto di una gravidanza inattesa.
Adesso è arrivato il momento: il voyeur deve mettersi all’opera. Certamente egli non è Ulisse, ma un po’ Telemaco è, per quanto la sua ricerca sia quella di una figura ultrafamigliare, sintesi del mascolino e del femminino. Soltanto qui comincia la Bildung, il cui senso non sta tanto nel ritrovare veramente lei; è nel momento della ricerca vana che il protagonista cresce; viene riconosciuto dagli altri, ottiene una promozione, acquisisce una sua embrionale identità. Conseguenza di questa cosa: egli non odia più il suo passato, riconsegna il pianoforte senza drammi, si sente a suo agio con l’amico paracadutista e lo invita a cena per festeggiare. È così che egli ritrova veramente Mabel, ma il ritrovamento è appunto qualcosa di più di un incontro, della risoluzione dei fatti: è invece lo splendore dell’enigma. Mabel non ricomparirà, risaltando infine più che mai; a ridarne il segno, la traccia ormai sepolta, sarà invece un giovane ragazzo di appena vent’anni, i cui occhi sembrano ridere come ridevano quelli di lei.

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