venerdì 8 febbraio 2013

Nell'occhio del Ciclope di Giacomo Lucarini

CARUSO PASCOSKI (DI PADRE POLACCO)
Francesco Nuti, 1988



“Dammi un bacino”.
Iniziare una rubrica di cinema in un blog d’arte, per quanto pazza, con una commedia italiana anni ’80 può sembrare assurdo. Eppure, chi bazzica e mastica cinema sa che, in quanto arte popolare e costosissima, prometeica, la settima arte ci regala spunti di riflessione laddove meno ce lo aspettiamo.
E allora, concedetemelo: Caruso Pascoski (di padre polacco) perché grande protagonista dello sfondo della strampalata storia d’amore tra Giulia e Caruso è una stupenda Firenze, città d’arte per eccellenza: via del Corso, il Lungarno, Piazza della Signoria e Santa Croce... Perchè la commedia italiana è un’arte andata scemando che forse proprio in quegli anni ha sparato le ultime cartucce… perché far ridere è un’arte e, di pancia e soggettivamente, ammetto che questo film ha il potere di farmi ridere, sorridere e divertire anche a distanza di anni e ripetute visioni. Non è da tutti.


Quella di Francesco Nuti è una parabola in sè quintessenziale della vita dell’artista: giovane e di belle speranze, grande gavetta, successo in gruppo, successone da solista, sfracelli al botteghino con film gradevoli e anche interessanti, poi il passo più lungo della gamba, caduta, agonia, demoni personali, malattia e triste limbo.
Eppure, in una manciata di anni e di opere, questo attore e regista di Prato ha segnato in maniera indelebile il cinema italiano e lanciato uno stile, la commedia toscana “personale”, che tanti consensi avrebbe raccolto anche in seguito, quando le sue sperimentazioni lo avrebbero portato troppo in là.
Uno stile poi saccheggiato a piene mani da Pieraccioni – senza mai sfiorare nemmeno per sbaglio l’onestà e la verve dell’originale. Certo, Nuti soffre di un narcisismo sfrenato e spesso, soprattutto da regista, tende ad assecondarlo; ma Caruso Pascoski è la sua prova migliore e ad ogni visione si ride come fosse la prima. E un pochino, diventati più grandi, si condividono anche i tormenti di tutti i suoi personaggi.


I momenti migliori: l’incipit cronachistico dell’amore tra Caruso e Giulia, sul fuoco di fila di hit italiane d’epoca, la scena dei pazienti di Caruso, il tributo a Taxi Driver nei bagni pubblici, la sfuriata alla Coop (che però era quella di Piazza San Marco a Prato), il tormentone del “Dammi un bacino”, il monologo sugli insaccati in salsa politica…
La storia dell’innamoratissimo, impacciato e un po’ folle psichiatra Caruso (Francesco Nuti), abbandonato dalla moglie-totem Giulia (Clarissa Burt) per “eccesso di passione” – spassosissime le scene in tribunale – è un po’ la rappresentazione delle paure di tutti: essere abbandonati dalla persona adorata senza sapere perché, poi ritrovarla in modi strani e poco ortodossi, infine… beh, non vi diciamo che cosa, se ancora non lo avete visto, ma sappiate che c’è di mezzo un altro (Ricky Tognazzi) e che niente, in fondo, è come sembra… neppure l’amore della vita. Se c’è una cosa che funziona in questa pellicola, infatti, è l’atmosfera da melodramma che striscia tra le pieghe della commedia e si insinua con scene molto particolari, che rimangono sottopelle, senza mai arrivare ad uno scioglimento sereno ma rimanendo lì, sospese. Come il finale.
Poche volte si vede un film dove si parla tanto di una donna e la si vede così poco, e quando la si vede si rimpiange di non vederla. Clarissa Burt è bellissima, statuaria e cagna come poche, persino la doppiatrice (Simona Izzo, poi – guarda un po’! – signora Tognazzi) è in difficoltà nel far combaciare il labiale.
Quindi? Narcisista, spesso sbilanciato, un po’ invecchiato in certe gag, leggero leggero quasi impalpabile. Sì, ma un film che a riguardarlo oggi si rimpiange certo cinema italiano “medio” che è esistito e pare non ci sia più: vivo, vitale, sfacciato e divertente. Scusate se è poco





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